SPECIALE CONGRESSO AVVOCATI: RELAZIONE DEL PRESIDENTE DELL’OUA
RELAZIONE DEL PRESIDENTE DELL’OUA
Avv. MICHELINA GRILLO
Questo Congresso si apre in
un momento del tutto particolare per l’Avvocatura italiana: un momento in cui l’assetto ordinamentale della
professione ed il suo concreto esercizio sono oggetto di interventi tanto
discussi quanto discutibili, che compromettono la libertà, l’autonomia e
l’indipendenza dell’avvocato, tramite
qualificato per la tutela dei diritti, custode geloso e responsabile
dell’altrui diritto di difesa. Quando il
Comitato Organizzatore del XXVIII Congresso Forense decise all’unanimità di
prevedere la divisione in due sessioni, aprendo i propri lavori a Milano e
chiudendoli a Roma, al di là delle ragioni manifeste o meno che avevano indotto
ogni componente del Comitato medesimo ad aderire a tale scelta, su una ragione
ci trovammo tutti d’accordo essendo, purtroppo ed ancora una volta, buoni
profeti: concordammo sulla necessità di permanere in assemblea congressuale
durante la fase di passaggio dalla XIV alla XV legislatura. Il Congresso, infatti, si sarebbe aperto al termine della passata
legislatura e concluso subito dopo l’avvio dell’attuale, con Parlamento e
Governo appena insediati. La stessa
lucidità e lungimiranza, malauguratamente, è poi mancata dopo Milano quando,
per ragioni che restano tanto oscure quanto non più rilevanti nella contingenza
che ci affligge, si crearono le condizioni perché non fosse celebrata questa
sessione conclusiva del congresso nel mese di giugno, fino a rischiare di non
celebrarlo del tutto. Assenza
di lucidità e lungimiranza, sento di doverlo chiarire subito, che forse non ci
avrebbe salvato dalla illegittimità e volgarità degli attacchi rivolti alla
nostra categoria, come dimostrano modalità, termini e giustificazioni dei
provvedimenti adottati e la grossolana soddisfazione espressa sul punto da quei
soggetti economici (o economicamente interessati) che hanno contrattato col
Governo la svendita della giurisdizione nel nostro Paese, ma che certamente
avrebbe impedito di farci riconoscere e percepire come una categoria lacerata
al suo interno da piccole gelosie di primi attori, ed in quanto tale
vulnerabile e facilmente aggredibile. Questo Congresso è diverso da ogni altro che
lo ha preceduto. Al termine di un mandato, peraltro eccezionalmente lungo come
questo, è consuetudine che il Presidente dell’Organismo politico rassegni al
Congresso l’attività svolta in ottemperanza al mandato ricevuto ed agli impegni
assunti all’atto dell’insediamento. Non temo di apparire pletorica affermando
che per qualità, quantità ed autorevolezza di interventi, nonchè per
l’attenzione dedicata alle esigenze delle realtà ordinistiche, alle
associazioni forensi, anche specialistiche, ed ai singoli iscritti agli Albi
territoriali, l’Organismo Unitario che ho avuto l’onore e l’onere di presiedere
chiude questo mandato con un bilancio non soltanto positivo, ma anche degno di nota. Ma questo non è tempo
né di ricordi – che chi vorrà potrà comunque “rinfrescare” leggendo le
rassegne in distribuzione sull’attività del mandato - né di autocompiacimenti. La
scelta dell’Organismo Unitario, di rinunciare in Congresso alle relazioni dei
propri componenti, privilegiando spazi di autentico dibattito, oltre a suggerire
per il futuro nuove strade per una moderna organizzazione e gestione di un
congresso politico quale è e deve essere il Congresso dell’Avvocatura, era una
necessità irrinunciabile oggi che la base dell’Avvocatura ci chiede con veemenza
analisi compiute, indirizzi chiari e determinazioni conseguenti alle recenti
novità legislative. In questa assise
congressuale è proprio la voce degli avvocati italiani, dei singoli delegati di
ogni foro, che deve risuonare alta e forte, non solo per manifestare una giusta
e legittima protesta e denunciare i gravi squilibri ed i vuoti che le recenti normative hanno determinato, ma anche
per contribuire concretamente alla formulazione finale di quelle proposte qualificate
di cui l’avvocatura da anni è stata politicamente capace di essere portatrice,
ancorché il più delle volte colpevolmente inascoltata. Nel mese di luglio, a
Governo appena insediato, i professionisti italiani ed alcune altre categorie
di lavoratori autonomi, sono stati destinatari di una decretazione d’urgenza,
voluta dal Presidente del Consiglio e dal Ministro per lo Sviluppo Economico,
che per finalità, modalità, contenuti ed atteggiamenti successivi, costituisce
uno degli attacchi più violenti, sguaiati e preoccupanti mai rivolto -
dall’unità d’Italia ad oggi - ad una categoria di lavoratori (quali anche noi
siamo) e di liberi pensatori. Per essere più espliciti, il Governo, in
violazione delle stesse norme ordinamentali, che pongono le professioni
liberali sotto la competenza e vigilanza del Ministro di Giustizia, neppure
preventivamente informato, contravvenendo ad ogni regola di democrazia che
prevede la concertazione con le parti sociali interessate, ricercando per
contro il consenso interessato di altre categorie produttive organizzate,
principali destinatarie dei benefici di tale normazione – in violazione in
questo caso anche delle norme in materia di concorrenza e di affidamento della
clientela - agendo in via abrogativa
senza preoccuparsi dei vuoti normativi determinati, introducendo norme
finanziarie e tributarie che, di fatto, inserite nel corpo di questo
provvedimento, il Governo, ripeto, ha descritto, in una norma di legge,
l’odierno professionista come un soggetto senza scrupoli che, illecitamente e
frodando il fisco, trae le sue fonti di reddito dalle vessazioni di consumatori
e utenti, incidendo negativamente sulle possibilità di sviluppo economico del
Paese. Un soggetto, una categoria, tanto più pericolosa in quanto politicamente incontrollabile, dalla
quale questo Governo afferma che il Paese debba essere difeso, ma che in realtà
si vuole ridurre al silenzio, quale voce libera, naturalmente antagonista del
potere in favore della difesa del singolo, limitandone gli spazi di movimento e
riducendone le aspettative economiche, in vista di un prossimo, auspicabile,
smembramento. Ciò in una con la riduzione degli ambiti della giurisdizione, con
l’assenza di volontà politica finalizzata alla ripresa di efficacia e di efficienza
della macchina giudiziaria e con la sistematica, costante compressione e
svilimento, dentro e fuori il processo, della difesa tecnica. Questo,
purtroppo, è il disegno che appare nelle dichiarazioni contenute e ricavabili
dal d.l. Bersani e da ulteriori iniziative legislative già note o prannunciate.
Anche il metodo è indice di protervia e
di inflessibile, ostinata determinazione. È appena il caso di ricordare che il D.L. Bersani è stato “varato”
di notte, mentre gli Italiani erano distratti dal positivo risultato di una
delle partite della Nazionale ai Mondiali di calcio, ed è stato convertito in
legge in tempi record, chiedendo al Parlamento il terzo voto di fiducia in
dieci giorni, in un procedere convulso, quanto determinato, che ha mortificato
lo stesso parere espresso dalla Commissione Giustizia del Senato, contenente
emendamenti al decreto che, soprattutto per la professione forense, venivano
proposti al fine di evitare di incorrere in innumerevoli e fondate censure di
incostituzionalità, di cui il famigerato decreto è costellato e caratterizzato.
È appena il caso, poi, di soffermarsi sulla circostanza che nello stesso
provvedimento sia stata prevista una riduzione degli stanziamenti per il
comparto Giustizia pari a 350 milioni di euro in tre anni a partire da quello
in corso, con buona pace dei progetti di ammodernamento della macchina
giudiziaria, di introduzione di innovazioni tecnologiche, di miglioramento
degli standard di vita nei penitenziari (infatti immediatamente risolto con un
provvedimento di indulto che, permanendo tale filosofia, potrebbe non essere
l’unico nei progetti di questo Governo). Anche tali misure appaiono confermare
l’esistenza di un progetto compiuto, tendente alla compressione della tutela
giurisdizionale dei privati cittadini a beneficio di organismi conciliativi di
diretta promanazione o posti sotto il controllo dei potentati economici, che
ottengono in tal modo la garanzia di “non restare vittime” di
un’applicazione della legge terza e neutrale rispetto ai destinatari della
stessa. Mai come in questo contesto si può affermare che un avvocato debole, e
quindi una difesa debole, piace ai poteri forti. Con un colpo di mano, che
parifica il prologo della legge ad un messaggio di pubblicità ingannevole,
apparentemente dettato a tutela del cittadino consumatore, e quindi del singolo
persona fisica, il Governo ha evidentemente voluto per un verso favorire la
concentrazione di potere e l’accaparramento di clientela nella gestione di
attività fino ad oggi caratterizzate dalla libera iniziativa anche dei singoli,
per altro incidere in modo grave sull’efficacia della giurisdizione a beneficio
di una categoria di organismi economici che si preparano ad assumere al
contempo la veste di gestori dei “servizi legali”, quella di parti della
contesa economica ed infine di giudici della contesa medesima (favorita
dall’ulteriore disegno di legge in materia di cd. class actions). La
dettatura delle linee guida del decreto Bersani da parte dei poteri forti
confindustriali (basti leggere le indicazioni di obiettivo contenute nei documenti
ufficiali dell’Assemblea di Vicenza dell’aprile 2006), quanto all’abbattimento
dei pretesi vincoli allo sviluppo rappresentati da tariffe, divieto di
pubblicità e di costituzione di società multiprofessionali con l’ingresso di
capitale esterno, dimostra come ci si sia ben guardati dal privilegiare la
qualità delle prestazioni rispetto ad
un livellamento al ribasso dettato da mere esigenze di carattere economico : l’obiettivo
di fissare limiti minimi alla qualità delle prestazioni professionali è stato
infatti definito come non praticabile e non opportuno, in quegli stessi studi
già citati, in quanto configgente con la volontà di abbattere i prezzi delle
prestazioni stesse ad ogni costo. Non può tacersi poi il malcelato ed
incondizionato favore per l’ingresso di soci terzi capitalisti negli studi
professionali, che risponde alla altrettanto precisa esigenza di consentire di
esercitare un surrettizio “controllo” su rilevanti settori dell’attività
giurisdizionale e non, da parte di un capitale che ha l’aspettativa di essere
remunerativamente investito nel settore dei servizi professionali, i quali,
come attestano recenti e meno recenti elaborazioni Istat – l’ultima delle quali
del corrente mese di settembre – mostrano un trend assolutamente positivo ed in
crescita percentuale di tutto rilievo. Ultima, ma non meno preoccupante
prospettiva, è data dalla possibilità di vedere dichiarata incostituzionale la
norma – risultato di indimenticate, compatte e forti battaglie dell’intera
avvocatura – che all’attualità prevede l’incompatibilità tra l’attività
lavorativa part-time e l’iscrizione all’Albo professionale. L’Organismo
Unitario rivendica con orgoglio le azioni intraprese – oggi purtroppo compiute
in assoluta ed incomprensibile solitudine - a difesa della vigente normativa in
materia. Il Ministro del welfare ha,
infatti, preannunciato l’esigenza di adottare in tempi rapidi misure di
flessibilità e di mobilità nel settore del pubblico impiego, necessitando così
nuovi sbocchi occupazionali per tutti coloro che, inevitabilmente, dovranno
rinunciare alla sicurezza sin qui garantita da impieghi sicuri e remunerativi.
Non può sfuggire l’effetto deflagrante ed incontrollabile che ne conseguirebbe,
peggiore perfino della totale abolizione – pure adombrata – degli esami di
abilitazione. È per tutti tali nobili motivi, più sopra elencati, che da parte
del Governo si è ritenuto di poter liberamente provocare un vulnus
profondo nel tessuto della nostra Nazione, moltiplicando le tensioni sociali,
mortificando la dignità di oltre tre milioni di lavoratori autonomi, che per la
gran parte svolgono la loro attività in modo ancora “artigianale”, il cui
sviluppo così certamente non potrà essere favorito? Lavoratori che mai nulla
hanno chiesto allo stato, neppure nei momenti di difficoltà, pur garantendo il
lavoro di un numero almeno pari di dipendenti, oltre l’indotto. Si tratta, per
parlare soltanto dell’Avvocatura, di una categoria di oltre 170.000 iscritti
che, con tutti i limiti causati dall’assenza di una riforma realmente
ammodernatrice, chiesta da decenni e mai ottenuta - piaccia o meno - ha
garantito l’esercizio della funzione giurisdizionale in questo Paese, colmando
quotidianamente e silenziosamente le innumerevoli lacune del sistema
giudiziario e della sua organizzazione, frutto di un atavico disinteresse di
tutti i Governi – passati e presenti - per il buon funzionamento della
giustizia. Una mortificazione ancora più grande per i cittadini, retrocessi da
questa legge al rango di consumatori, i cui diritti vengono massificati e la
cui tutela viene compressa per favorire i contraenti più forti, con il sostegno
“morale” di talune, sedicenti, associazioni di consumatori - studi
legali organizzati da soggetti terzi - cui il Governo assicura, ove funzionali
a tale disegno, cospicue contribuzioni – sotto forma di convenzioni - per un ammontare complessivo di oltre 30
milioni di euro l’anno, somme che giocano, com’è di tutta evidenza, un ruolo
non indifferente nello sviluppo di tali studi in concorrenza con quelli dei
liberi professionisti!! Questi i fatti, così come tra i fatti va ascritta
l’incredibile propaganda ed il controllo mediatici esercitati sulle reazioni al
decreto, utilizzando tutti i canali informativi riferibili al Governo o ai
poteri economici che oggi ne condividono l’azione. Ne è ultimo e illuminante
esempio l’ultima puntata del talk show “Ballarò”, che per la parte in cui
avrebbe dovuto occuparsi approfonditamente del decreto Bersani, compiendo un
opportuno dovere informativo nei confronti del cittadino sui pro e i contro
delle norme ivi contenute e sulle ragioni della protesta dei professionisti e
degli avvocati italiani, ha invece ritenuto di “ospitare” l’unica
rappresentante di categoria in uno studio attiguo a quello della trasmissione,
concedendole pochi minuti e soltanto due brevi “spot”, per non creare al Ministro Bersani gli imbarazzi che
sarebbero derivati da un vero e serrato contraddittorio. Prova ne sia che le
poche domande formulate non hanno trovato alcuna risposta, ma hanno comunque
determinato un visibile disagio, malcelato da un atteggiamento sarcastico e
noncurante, che ha imposto un richiamo espresso al rispetto dovuto ad ogni
categoria. A contorno, si è dovuto registrare – nella stampa come negli altri
media - persino l’uso spregiudicato di sigle e personaggi, del tutto
disarticolati dalla categorie, non rappresentativi neppure di minoranze
organizzate di essa (come l’ANPA), che non soltanto hanno partecipato in
qualità di utili servitori alle fasi preliminari del progetto, ma sono state
financo utilizzate per evidenziare divergenze di posizioni all’interno
dell’Avvocatura che invece, è questa è forse la vera sorpresa per Bersani e le
sue quinte colonne interne alla categoria, sul tema è apparsa compatta e
reattiva al di là di ogni previsione. Una ferma risposta non può attendere. Nulla
può giustificare o fornire comodi alibi a chi ha sferrato tale proditorio
attacco ai professionisti, ai lavoratori autonomi e comunque all’Avvocatura. Questo Congresso, quindi, deve costituire
luogo e tempo della sintesi del malessere dell’avvocatura, ma anche luogo e
tempo per l’elaborazione compiuta e consapevole del suo progetto di
modernizzazione. Fondamentale in tal
senso è comprendere se abbiamo un progetto di modernizzazione condiviso; ma,
ancor prima, è necessario capire se davvero sentiamo di appartenere, così come
siamo soliti ripetere, ad un corpus unico che, per quanto composito e
diversificato al suo interno, è omogeneo quanto ai valori che costituiscono i capisaldi della professione forense,
primi fra tutti l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere e/o
condizionamento, oltre che il sentire l’avvocato quale principale mediatore tra
le istanze ed i bisogni di tutela dell’individuo, lo Stato o comunque la P.A.
ed il sistema costituzionale di tutela giurisdizionale. Proprio il sistema
giudiziario, nell’ultimo decennio, è stato
progressivamente messo in crisi, inizialmente privandolo delle
necessarie risorse economiche ed umane, mentre si intensificavano le riforme processuali
a costo zero, e da ultimo, sia nella passata legislatura sia, ancora più
brutalmente, all’inizio dell’attuale, propagandando illusori rimedi contro “la
lunghezza dei processi”: provvedimenti che moltiplicano le occasioni di
erosione della giurisdizione e contestualmente tendono non più – come anche il
lessico prescelto denuncia – all’esercizio della giustizia, ma alla risoluzione
di controversie in forma sempre più seriale e massificata che, in nome della
celerità della composizione delle crisi, funzionale al sistema socio-economico,
non esita a sacrificare i diritti dei singoli, procedendo nei fatti alla più ampia e occulta riforma
costituzionale mai registrata nella storia del Paese. Con buona pace di tutte le procedure di
infrazione avviate nei confronti dello Stato Italiano dal Consiglio d’Europa e
dall’Unione Europea, che piuttosto sembrano costituire un alibi dietro il quale
il Governo pensa di nascondersi non tanto per ridurre i tempi eccessivi di
durata del processo, ma per eliminare il processo. Lo dimostrano le improvvide,
sintomatiche recenti dichiarazioni del Ministro Mastella, sull’ipotesi di
eliminazione del giudizio di appello civile, a conferma peraltro dell’assoluta
ignoranza del Ministro circa il fatto che i giudizi d’appello non sarebbero di
per sé di lunga durata, ma lo divengono – ahimè - per l’attuale disorganizzazione delle Corti d’Appello, che produce
ormai quasi ovunque il differimento della vera udienza di trattazione a non
prima di tre anni. Ma se il quadro descritto è ormai chiaro alla quasi
generalità dell’Avvocatura, più difficile è comprendere quale direzione la
stessa voglia intraprendere. Dichiaro
subito che non intendo unirmi al coro di coloro che ritengono che ogni determinazione
debba essere preceduta da una lunga auto-flagellazione, così come non intendo al
tempo stesso occultare le nostre responsabilità ed i nostri limiti. Essi sono sotto gli occhi di tutti, e
primariamente sotto i nostri: questa categoria, come ogni altra in questo
nostro Stato, ha risentito di uno sviluppo sociale che per troppi decenni ha
disconosciuto l’esigenza di una selezione basata sul merito e soffre di ampie
sacche di mediocrità come qualunque altra espressione professionale, così come
risente il limite di un Paese che non si è mai preoccupato di formare una
classe politica e dirigente preparata e nel quale ogni attività, anche quelle
caratterizzate da rilevanza sociale, viene interpretata e gestita più con
riferimento ai risvolti economici ed ai livelli occupazionali che alle finalità
che tale attività deve perseguire. Queste, in sintesi, le questioni, da tempo
evidenziate nelle produzioni ed elaborazioni dell’organismo politico, che prima
o poi sarà necessario affrontare e risolvere e rispetto al quale l’Italia
registra un notevole ritardo. Su queste questioni l’Avvocatura italiana deve
essere capace di un colpo d’ala, e di impostare la propria iniziativa politica
per i mesi a venire, uscendo con forza dall’angolo nel quale si ritiene di
averla relegata prigioniera unicamente di una riflessione tutta dispiegata al
proprio interno sull’assetto ordinamentale. È necessario che l’Avvocatura
concluda questo Congresso con un pacchetto di iniziative forti, articolate e
condivise, in grado di manifestare all’opinione pubblica, e far comprendere al
Governo ed alle forze politiche tutte che non intende piegarsi alle logiche
liquidatorie in atto. Occorre altresì pervenire alla formulazione di una Carta
dell’Avvocatura italiana, che chiarisca, senza possibilità di equivoci e
fraintendimenti, i principi fondamentali della riforma delle professioni e
della riforma dell’ordinamento forense, sui quali non è possibile mediazione
alcuna, nella consapevolezza piena della dignità e dell’orgoglio della nobile e
delicata funzione difensiva che è chiamata a svolgere e dell’importanza che nel
Paese sia preservata, a tutela di tutti gli individui, la primazia della
giurisdizione. È perciò indispensabile che i rappresentanti dell’avvocatura,
qui riuniti nella massima e più autorevole assise, sappiano tradurre le
legittime aspettative di una classe forense esasperata ed indignata oltre ogni
dire, in un progetto politico che veda la convinta partecipazione ed adesione
di tutti. Da questo Congresso non è
consentito ad alcuno offrire altri regali a chi ha dimostrato di considerarci
non interlocutori necessari in un civile dibattito sociale e politico e
soggetti ineliminabili della giurisdizione, ma nemici politici ed avversari. L’avvocatura sappia ritrovare, proprio nel
momento più delicato della sua storia recente, la capacità di ascoltarsi e la forza
di farsi ascoltare.