SPECIALE CONGRESSO FORENSE. RELAZIONE DI GUIDO ALPA PRESIDENTE CDF
Relazione di Guido Alpa, presidente Cnf
1. - Premessa.
A mia memoria, ma
anche nella memoria restituita dagli
annali dell’ Avvocatura, credo che questa sia la prima volta che un
congresso forense si celebri contestualmente alla astensione dal lavoro,
proclamata nei giorni dal 18 al 23
settembre. La coincidenza non è
casuale: è una manifestazione del disagio in cui è stata costretta l’ Avvocatura dalle recenti innovazioni
legislative che hanno, in modo erratico e senza consultazioni, modificato,
repentinamente, alcuni capisaldi della nostra disciplina. Ma si tratta di due
iniziative che si svolgono su piani diversi: la seconda è volta a
sollecitare un’attenzione all’esterno; la prima è la riflessione interna sullo stato attuale e sul futuro dell’
Avvocatura italiana nell’ambito della disciplina delle professioni
intellettuali. E pertanto, delusi, aggrediti ma non rassegnati gli Avvocati
italiani hanno risposto all’appello del Consiglio Nazionale forense, degli
Ordini e delle altre componenti dell’ Avvocatura per celebrare nella Capitale
la sessione finale del XXVIII Congresso
forense. È un congresso che si è voluto totalitario perché tutti gli
Avvocati con tutte le loro forme espressive e rappresentative potessero
concorrere a ragionare , a progettare,
a discutere tra loro e con gli interlocutori esterni alla categoria il ruolo
dell’ Avvocatura e i capisaldi di una professione che deve comunque essere
rispettata e sostenuta. Se il Congresso di fosse concluso a giugno ci saremmo
trovati a ridosso di una svolta – che confidiamo temporanea – rispetto alla
quale si sarebbe dovuto riconvocare in via d’urgenza un’altra assise. Siamo qui riuniti per testimoniare e per costruire,
per correggere e per integrare , per cogliere i segni del cambiamento ma anche
– come ci eravamo proposti a Milano – per
governarlo[1].
A novembre, la sessione milanese si
era conclusa con molte attese. Avevamo dimostrato al Governo e al
Parlamento allora in carica, alle istituzioni, alla società civile, che l’
Avvocatura era pronta a sostenere con impegno, con fatica ma anche con
abnegazione il proprio ruolo nel
sistema di amministrazione della giustizia; ma si aspettava – non quale premio,
o quale ricompensa , ma quale atto doveroso di collaborazione e di sostegno –
un intervento sostanzioso di riforma . Non è stato così, né possiamo immaginare con esattezza come si chiuderà questa
partita. Non abbiamo rinunciato a governare il cambiamento, perché – la nostra storia ce lo insegna - l’
Avvocatura sopravvive nonostante tutto: nonostante le promesse mancate,
nonostante le aggressioni subite, nonostante
il gratuito dileggio a cui tradizionalmente è fatta segno[2],
nonostante l’ingratitudine di cui è circondata. Ecco perché ho scelto – in modo
non causale – di riprendere, quale titolo della mia introduzione, le stesse
parole che comparivano nel programma elettorale condiviso dalla coalizione di
forze politiche che ha poi assunto le attuali responsabilità di governo e
che avevano suscitato il legittimo affidamento di noi avvocati: «dare nuovo
valore all’avvocatura»[3].
Se avessimo scritto noi quel testo non l’avremmo di molto cambiato. Quel testo
ci riconosce un ruolo insopprimibile: «La
professione forense partecipa attivamente all’ esercizio della giurisdizione,
concorre in maniera decisiva all’efficacia ed efficienza del servizio
giustizia, svolge un’essenziale funzione di tutela dei diritti individuali e
collettivi e contribuisce a realizzare il sistema costituzionale delle garanzie».
Quello stesso testo ci riconosce «la competenza in via esclusiva
del patrocinio, della rappresentanza e dell’assistenza innanzi all’autorità
giudiziaria o ad altra autorità che emetta un giudizio destinato a produrre
effetti giuridici»; rafforza «la natura
e la democraticità degli ordini»; ribadisce «il principio dell’autonomia e libertà dell’avvocatura»; eleva la qualità del sistema dell’accesso, basato sulla frequenza di scuole forensi
e di specializzazione per le professioni legali , sul tirocinio e su un esame
di stato finale; con l’obbligo della
formazione professionale permanente e «le modalità di verifica da parte degli
ordini professionali»; conferma un sistema di tariffe che siano ad «un
tempo garanzia per il cittadino, tutela della dignità della professione,
incentivi alla soluzione rapida (giudiziale e stragiudiziale) del contenzioso»
e prevede «una partecipazione attiva
dell’ avvocatura a tutte le forme di risoluzione delle controversie alternative
alla giurisdizione, di arbitrato e di conciliazione non giudiziale delle
controversie». I valori , il ruolo e i diritti che oggi rivendichiamo avevano
trovato una condivisione nei progetti di disciplina delle professioni che si
sono succeduti o e oggi sono stati presentati dalle diverse parti politiche: essi costituiscono un
patrimonio comune che non si può
cancellare con un tratto di penna. È nei contenuti, oltre che nel metodo, che
abbiamo contestato la svolta repentina, inconsueta e inattesa che ha sollevato
la protesta ed esacerbato gli animi. Né è corretto accusarci di non avere
accettato negoziazioni, che però sarebbero partite da posizioni tali da
mettere in gioco l’essenza della
professione forense. Ogni cambiamento, se opportuno, deve muovere da una
premessa indefettibile: la salvaguardia dell’indipendenza, dell’autonomia,
della dignità e del decoro della nostra professione. Molti, anche all’interno
dell’ Avvocatura, ritengono che non si debba rivangare il passato, e si debba invece guardare solo al futuro,
pensare a come l’ Avvocatura si debba rinnovare, accettando nuovi modelli e
mettendo da parte privilegi, arroccamenti, chiusure corporative. È un’immagine
non realistica e ingrata di una professione che in tutti gli ordinamenti è
qualificata in termini di garanzia dello Stato di diritto[4].
Non sarebbe serio voltare pagina senza capire , né sarebbe serio abbandonare
ogni valutazione critica; sarebbe ancor meno serio chinare il capo senza far
sentire ancora la nostra voce. Una voce consapevole e pacata, che non metta a
repentaglio la nostra immagine e nello
stesso tempo faccia valere il suo peso. Le attestazioni di solidarietà che
abbiamo ricevuto dal CCBE, dalle rappresentanze straniere dell’ Avvocatura,
dalle altre componenti professionali ci confermano nel nostro intento. E le
vicende analoghe che hanno investito i nostri Colleghi europei – gli avvocati
del Belgio che tramite la Cour d’Arbitrage hanno sollevato la questione
di violazione delle regole comunitarie determinata dalla disciplina
dell’antiriciclaggio[5],
gli avvocati tedeschi che hanno
contestato l’abolizione della riserva di consulenza legale, gli avvocati
inglesi che hanno contestato la “riforma Clementi”[6]–
dimostrano che il vento che oggi spira in Europa non può travolgere e
distruggere senza costruire consapevolezza, ragionamento, meditazione,
consultazione[7] sono i
cardini di ogni riforma in una società che si dice e vuole essere democratica e
moderna. Anche le sentenze della Corte
di Giustizia depositate proprio l’altro
ieri – sollevano perplessità: non riguardano le tariffe, ma il diritto
dell’avvocato straniero di essere
iscritto, con il suo titolo, all’albo
senza doversi sottoporre all’esame della lingua del Paese ospitante[8]
, e il diritto dell’avvocato straniero,
che riceva il diniego di iscrizione all’albo, di non essere giudicato né in primo grado né in appello , da organi
composti in maggioranza da avvocati del Paese ospitante [9]
. Approfondiremo nei prossimi giorni gli effetti di questi dicta.
2. - Due modelli di concepire le professioni
liberali e in particolare la professione forense.
Nello
scenario delle professioni liberali due
sono gli indirizzi che si contrappongono e configgono tra loro ormai da più di venti anni e che si riflettono,
con particolare evidenza , nel mondo dell’ Avvocatura . Vi è un indirizzo che
si autodenomina “liberista” e solo per
questo pretende di avere per sé il futuro, al fine di rinnovare e
sviluppare le strutture dell’economia , renderle competitive in Europa e
promuovere forme giuridiche delle
professioni che si adeguino a questi scopi e non costituiscano barriere od
ostacoli a questi disegni. Questo indirizzo sfrutta l’immagine, l’angoscia del
nuovo, i timori dell’era presente (un’era di sfide globali che suscitano
infinite inquietudini, che pare essersi quasi interamente affidata alla
“scienza triste”, per l’appunto all’economia, per risolvere i problemi della
caduta dei valori, della scomparsa delle classi sociali, della rinascita della
povertà). E’ un indirizzo , un modo di pensare, una concezione della vita
sociale e della vita politica nel quale
convergono i sostenitori della concorrenza e della competizione senza valori e
senza limiti, i sostenitori del rapporto diretto tra il cittadino e lo Stato
senza rilievo delle comunità intermedie, i sostenitori di quella “società degli
individui” , la società composta da monadi prive di protezione, di cui Norbert
Elias ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e i pericoli[10].
In questo contesto tutto ciò che è diritto, regola, contesto normativo è
considerato dal punto di vista esclusivamente funzionale e come mera
sovrastruttura. E, ovviamente, coloro che rappresentano il mondo del diritto sono dipinti con le
medesime caratteristiche, funzionali al mercato e considerati mera
appendice ( eventuale e non desiderata) nella soluzione dei conflitti[11].
Questo indirizzo alligna ovunque: alla
Direzione Generale della Concorrenza di
Bruxelles[12] come nelle
aule del nostro Parlamento, nelle stanze dei Governi, nelle Università[13]
e nelle istituzioni, riceve il
sostegno dei sindacati[14]
e di associazioni di consumatori[15],
è promosso dalle associazioni delle professioni non regolamentate e trova
consensi finanche in alcune limitate frange dell’Avvocatura che pensano agli
Ordini come inutili fardelli o, peggio, come scomodi watchdogs di cui ci
si deve liberare senza tanti riguardi. E
vi è un indirizzo che non si definisce
conservatore ma piuttosto e realisticamente “difensore dei valori fondanti
dell’ Avvocatura” nel senso dei valori
costituzionali , valori che hanno
consentito la trasmissione della nostra cultura giuridica, antica e
prestigiosa, che hanno consentito di adattare il nostro sistema alle nuove esigenze economiche senza traumi
o rivoluzioni copernicane, che non ha
registrato reazioni negative della
maggior parte delle imprese e neppure della maggior parte delle associazioni di
consumatori, e che lungi dall’essere
corporativo, si affida ad un controllo diffuso della deontologia, alla preminenza della qualità della prestazione,
alla commisurazione dignitosa e sufficiente della attività prestata, alla distinzione degli interessi del
professionista da quelli del cliente, all’affermazione del prestigio come unico
ed esaustivo mezzo di rappresentazione di sé, del proprio studio, e della
propria competenza.[16]
Questo indirizzo ha dalla sua parte il Parlamento europeo, la cui Risoluzione
del 23 marzo scorso è un autentico manifesto. L’ho acclusa al testo della
relazione per due ragioni concorrenti: perché nessuna istituzione ha rappresentato e difeso i valori delle professioni intellettuali e in particolare
di coloro che svolgono attività di natura legale meglio del Parlamento europeo,
e perché quel testo può essere assunto a vessillo delle nostre aspettative.
Aspettative o diritti ? Oggi gli
Avvocati sono costretti a difendere i propri diritti e a non occuparsi soltanto
dei diritti dei propri clienti. Ma quando gli Avvocati difendono i propri
diritti difendono al contempo il loro ruolo in una società che vogliono libera
, democratica, efficiente ma non asservita al mercato. Questi due indirizzi, che compongono
altrettanti modelli di disciplina delle professioni e quindi della stessa
professione forense, sono variamente sparsi in Europa, a dimostrazione che
possono convivere sistemi diversi e che l’organizzazione delle professioni non
incide sulla opportunità o meno di uniformare il diritto sostanziale e il
diritto processuale di ogni Paese in un unico , uniforme e compatto modello
professionale . D’altra parte, al mercato interessano di più le regole che
governano la circolazione dei beni e dei servizi o risolvono i conflitti
piuttosto che il modo nel quale si appresta l’assistenza legale: se il contratto è scritto da un solicitor
o da un avocat, se attore o convenuto sono difesi da un barrister
in parrucca o da un avvocato in toga poco importa per la funzionalità del
sistema della giustizia. Se mai, e al contrario, proprio l’unificazione delle
regole di diritto sostanziale – in particolare del diritto contrattuale e delle
regole di diritto processuale – potrebbero essere funzionali a quell’unità dei
mercati internazionali che viene assunta a ragione della libertà di
circolazione dei servizi legali dall’indirizzo che si autodefinisce liberista. E
qui riscontriamo una prima, enorme contraddizione: proprio l’indirizzo che
vuole travolgere le caratteristiche nazionali delle professioni si oppone alle
iniziative di uniformazione delle regole del diritto sostanziale e del diritto
processuale. Anzi, esalta la diversità
degli ordinamenti e la competizione delle regole. Non è solo questa la
contraddizione che vive l’indirizzo che si autodefinisce liberista; ve ne sono
altre e ben peggiori. L’assalto alla
organizzazione delle professioni liberali mediante la critica del sistema
degli Ordini, e, correlativamente,
mediante la segnalazione della inopportunità del sistema tariffario, delle
limitazioni alla pubblicità e delle
altre “restrizioni concorrenziali” si
trova nelle argomentazioni di quanti fanno
uso della storia per raggiungere il loro obiettivo, cioè rimuovere tutte
le supposte sovrastrutture che si
oppongono alla libera circolazione dei servizi. Certamente è documentato che
gli ordini sono nati come ordinamenti
giuridici privati in risposta alle esigenze di mercato e a difesa degli
interessi del gruppo di appartenenza e che successivamente sono stati inglobati
nell’ordinamento generale e sussunti nella disciplina pubblicistica, attraverso
la trasformazione dei gruppi sociali in
enti pubblici indipendenti e autonomi sotto la sorveglianza dello Stato. Ma
proprio per questo, avendo mutato ruolo, natura e funzioni, non si può – se
non aprioristicamente - ritenere che sotto la veste dell’interesse pubblico essi perseguano la tutela
di interessi privati. La filosofia
dell’indirizzo che si autodefinisce liberista è tutta qui: pretende di
appiattire la prospettiva e i dati storici, perché dalle corporazioni medievali
sono trascorsi almeno otto secoli, e la disciplina delle professioni è ora
informata a valori e principi contenuti nella Costituzione, nella Carta di
Nizza, nelle leggi professionali, nel codice deontologico. Questi valori sono
tutti orientati a privilegiare l’interesse pubblico, ed è proprio per questo
che si può parlare di responsabilità sociale del professionista, di personalità della prestazione, di
responsabilità di mezzi e non di risultato,
e così via.E’ quanto abbiamo sostenuto al Congresso di Palermo e abbiamo
ribadito in ogni occasione di incontro istituzionale. La Commissione europea ha
preso di mira le professioni, e in particolare l’ Avvocatura. Più volte negli
ultimi anni la Commissione europea ha insistito presso il Governo italiano
perché giustificasse la compatibilità
della disciplina forense con i dettami
del diritto comunitario. E il CNF anche
in questa occasione ha fatto la sua parte,
producendo autorevoli pareri, scritti difensivi, dichiarazioni portate
alla conoscenza del pubblico, per spiegare
ai suoi interlocutori, nazionali e comunitari, che il sistema tariffario
ha una sua logica paritaria, di trasparenza e di congruità, che la pubblicità
effettuata senza limiti crea confusione e dequalificazione, che l’inquinamento
di soci professionisti e soci di mero capitale implica l’esercizio di
professioni rilevanti per l’interesse pubblico da parte di chi non ne avrebbe
titolo. Inutile ripercorrere in questa sede tutta le iniziative che il CNF ha
promosso per contestare il fondamento logico e fattuale della Comunicazione
sulla concorrenza nei servizi professionali [COM (2004) 83] e per valutare criticamente il seguito di
quella Comunicazione [ COM (2005) 405]. A ben vedere, i due pilastri sui quali
poggia l’indirizzo che si autodefinisce liberista – il diritto comunitario e la
tutela dei consumatori – sono così fragili da dimostrare che loro natura è astratta, ideologica,
inconsistente. I fatti e i documenti parlano per noi.
3.
- La “posizione
comune” sulla disciplina dei servizi.
Proprio il 17 luglio
scorso la disciplina dei servizi ha ricevuto il crisma della “posizione comune”
del Consiglio e del Parlamento europei. Una analisi accurata di questo testo
meriterebbe molto spazio, che in questa sede non posso utilizzare. Ma , dandone
una lettura funzionale all’occasione, cioè al dibattito sulla disciplina attuale
delle professioni, sui progetti di riforma e sullo stato della professione
forense, se ne possono ricavare
principi significativi, utili a
sostenere le nostre ragioni piuttosto che a
demolirle. Quantunque non tutte le richieste degli esponenti delle
professioni siano state accolte, i risultati a cui è pervenuto l’iter formativo
sono comunque apprezzabili, se si
considera che il testo distingue tra la
prestazione di “servizi” di natura professionale rispetto a quella di servizi
d’impresa, che pone in evidenza le peculiarità delle singole professioni, che sottolinea gli interessi pubblici o
essenziali che le professioni tutelano. Restano in ogni caso salve, oltre alla
direttiva sulle qualifiche professionali (2005/36) le due direttive sulla libertà di stabilimento e sulla libertà di
esercizio dell’attività forense già approvate dalla Comunità (77/249; 98/5),
che prevalgono, per le materie che trattano, su quanto disposto dalla
direttiva, in ragione della loro
specificità. Dal punto di vista dell’ Avvocatura la “posizione comune” offre
inoltre interessanti spunti di riflessione. Essa fa riferimento infatti alla
possibilità da parte dei legislatori nazionali di prevedere tariffe per particolari servizi. In
altri termini, la conservazione o la introduzione di tariffe non è vista, nella
direttiva, come una limitazione tour
court alla libera circolazione dei servizi o come una barriera al mercato
unico. Recita infatti il considerando
n.77 che «la valutazione della compatibilità delle tariffe obbligatorie
minime e/o massime con la libertà di stabilimento riguarda soltanto le tariffe
specificamente imposte dalle autorità competenti per la prestazione di
determinati servizi e non, ad esempio, le norme generali in materia di
determinazione dei prezzi» (come accade per
la locazione di immobili). Resta quindi lo spazio affidato alle “autorità competenti” per stabilire quali
prestazioni possono essere assoggettate a tariffe minime e/o massime. Al n. 88
si precisa che «la disposizione sulla libera prestazione di servizi non
dovrebbe applicarsi nei casi in cui, in conformità del diritto comunitario,
un’attività sia riservata in uno Stato membro ad una professione specifica, ad
esempio qualora sia previsto l’esercizio esclusivo della consulenza
giuridica da parte degli avvocati». Ebbene, questa precisazione conferma quanto da tempo l’Avvocatura
italiana va sostenendo e cioè che di per sé la riserva di attività a
determinate professioni non è in contrasto
con la disciplina comunitaria – sia essa rivolta a tutelare la concorrenza sia
essa rivolta a tutelare la libera prestazione o circolazione di servizi – e che
proprio la consulenza legale, assunta nel considerando come esempio
paradigmatico, è affidata alla libera valutazione dei legislatori nazionali.
Tenendo conto delle iniziative già assunte a questo proposito da qualche Paese
comunitario (come il Portogallo) sulla
disciplina antiriciclaggio e i requisiti prescritti dalla seconda e dalla terza
direttiva in materia, la precisazione
del n. 88 costituisce un buon argomento da spendere presso le Autorità
legislative e amministrative del nostro Paese perché riconsiderino l’idea di
ridefinire ambiti e modalità di espletamento della consulenza legale. Un’altra precisazione importante proviene dal
“considerando” n. 90. «Le relazioni contrattuali – recita il testo – tra il
prestatore e il cliente nonché tra il datore di lavoro e il dipendente non sono
soggette alla presente direttiva. La legge applicabile alle obbligazioni
contrattuali ed extracontrattuali del prestatore è determinata dalle norme di
diritto internazionale privato». Ogni parola contenuta in questo frammento
della “posizione comune” deve essere decodificata. Ed infatti, le “relazioni
contrattuali”[17] non sono
oggetto della direttiva e pertanto le regole concernenti il mandato
professionale, il contratto d’opera intellettuale richiesto al professionista
(e specificamente all’avvocato) non è assoggettato ad armonizzazione, e ciascun
ordinamento statuale può disciplinarlo liberamente. Allo stesso modo, vista l’autolimitazione
che la direttiva si dà, le regole della direttiva non dovrebbero invadere una
sfera che, attualmente, è materia dei modelli
normativi nazionali. La seconda parte della formula sembra confermare
che in caso di determinazione della legge applicabile si deve fare riferimento
alle obbligazioni del prestatore,
cioè, nel nostro caso, del professionista. Ebbene, se così fosse, il contratto
tra l’avvocato e il cliente non solo è sottratto alla disciplina comunitaria, ma anche per la legge applicabile si
applicano i criteri di determinazione previsti per la prestazione
caratteristica, che è per l’appunto quella del professionista, e nel nostro
caso, dell’avvocato. Queste
osservazioni portano ad una conclusione
rilevante: le regole previste dalla direttiva non possono che riguardare il
modo nel quale i soggetti a cui essa si rivolge prestano il servizio, ma non il
contenuto del contratto con cui prestano il servizio. Vi è ancora un
considerando che occorre evidenziare: al n. 101 la “posizione comune”
stabilisce che «è necessario ed è nell’interesse dei destinatari, in
particolare dei consumatori, assicurare che i prestatori abbiano la possibilità
di fornire servizi multidisciplinari e che le restrizioni a questo riguardo
siano limitate a quanto necessario per assicurare l’imparzialità nonché
l’indipendenza e l’integrità delle professioni regolamentate. Ciò lascia
impregiudicati le restrizioni o i divieti relativi all’esercizio di particolari
attività intesi ad assicurare l’indipendenza nei casi in cui uno Stato membro
affida ad un prestatore un particolare compito (…) e non dovrebbe incidere
sull'applicazione delle norme in materia di concorrenza». Come è noto, molto si
è discusso in ordine alla possibilità da parte degli avvocati di costituire
società multidisciplinari: la “posizione comune” parla innanzitutto di servizi multidisciplinari, i quali
possono essere offerti al cliente da
più professionisti di diverse discipline non necessariamente vincolati tra loro
in modo permanente o sotto uno schermo societario; ma ciò che più colpisce è
che il testo si preoccupa di salvaguardare le restrizioni o i divieti che sono dettati per singole professioni
sulla base dei valori di imparzialità,
indipendenza, integrità. In altri termini, non vi
sono indirizzi cogenti che impongano di spazzare via i valori sui quali si
fonda la nostra professione. La “posizione comune” si sofferma a lungo sui codici di condotta. Ed anche qui si
rinvengono precisazioni che investono direttamente la nostra situazione. Al n.
113 si incoraggia la redazione di
codici di condotta comunitari, sollecitazione che certamente non è rivolta all’
Avvocatura, atteso che da anni il CCBE ha predisposto un codice di condotta
forense. In particolare si sottolinea la necessità di promuovere la qualità
dei servizi «tenendo conto delle caratteristiche specifiche di ciascuna
professione». Programma che il CNF da tempo ha messo in cantiere, predisponendo
una bozza di regolamento per accreditare gli avvocati quanto all’aggiornamento
professionale. Si aggiunge ancora che «i codici di condotta devono rispettare
il diritto comunitario e in particolare il diritto della concorrenza. Essi non
dovrebbero essere incompatibili con le norme di deontologia professionale
giuridicamente vincolanti negli Stati membri». Ora, la deontologia
professionale per gli avvocati è
prevista dalla legge fondamentale del 1933, e, in attesa di una riforma
organica delle professioni, questa disciplina deve essere coordinata con la l.
n. 248 del 2006. Le regole della concorrenza debbono quindi essere contemperate con quelle della
deontologia professionale. Ma, come si aggiunge nel considerando n. 115, i codici di condotta comunitari non ostano a
che i legislatori nazionali prevedano regole più rigorose. Si lascia spazio ai modelli
nazionali per elevare il livello etico della prestazione professionale,
proprio perché si fa riferimento a ordini
(e associazioni professionali). La “posizione comune” tratta con
particolare riguardo le professioni
regolamentate anche in materia di pubblicità
commerciale: il considerando n.114 prevede sì la inclusione di regole nei
codici di condotta ma fa salve due limitazioni con cui la libertà di utilizzare
la pubblicità deve coniugarsi: la natura
specifica di ogni professione e l’ esigenza di garantire l’indipendenza, l’imparzialità e il segreto
professionale. In altri termini, proprio i valori che presiedono, nel
codice deontologico forense, alle
limitazioni in tema di “informazione pubblicitaria”. L’articolato della
“posizione comune” riprende punto per punto queste linee. Ulteriori
considerazioni si possono fare però su alcune disposizioni che, tenendo conto
della nuova disciplina delle professioni introdotta dalla l. n. 248 del 2006 e
del codice deontologico forense, illustrano la situazione comunitaria, a cui si
dovrebbe ispirare il legislatore italiano. Quanto alle informazioni da dare al cliente il testo è molto preciso. Si tratta
di un modo di offrire un servizio qualitativamente
accettabile, peraltro già attualmente offerto dalla categoria forense o che
non implicherebbe alcun costo offrire in modo più dettagliato. Prevede infatti
l’art. 22 che i prestatori di servizi devono mettere a disposizione dei clienti
diversi dati, che, stante la generalità dei servizi di cui si occupa la direttiva,
possono essere così selezionati per quanto riguarda direttamente gli avvocati: «a)
il nome del prestatore, il suo status e forma giuridica, l’indirizzo postale al
quale il prestatore è stabilito e tutti i dati necessari per entrare
rapidamente in contatto e comunicare con il prestatore direttamente e, se del
caso, per via elettronica; (…) d) ove il prestatore eserciti un’attività
soggetta all’IVA, il numero di identificazione (…); e) per quanto
riguarda le professioni regolamentate, gli ordini professionali o gli organismi
affini presso i quali il prestatore è iscritto, la qualifica professionale e lo
Stato membro nel quale è stata acquisita; f) le eventuali clausole e
condizioni generali applicate dal prestatore; g) l'esistenza di
eventuali clausole contrattuali utilizzate dal prestatore relative alla legge
applicabile al contratto e/o alla giurisdizione competente; i) il prezzo
del servizio, laddove esso è predefinito dal prestatore per un determinato tipo
di servizio». Gli Stati membri curano che queste informazioni siano comunicate
di propria iniziativa da parte del prestatore, siano facilmente accessibili al
destinatario, risultino dai documenti informativi utilizzati dal prestatore. Quanto
al prezzo della prestazione, non si
prevede l’obbligo di esplicitarlo, a meno che esso non sia predefinito dal prestatore (e questa è ovviamente una sua scelta);
nel caso non sia indicato, occorre indicare il metodo del calcolo per consentire al cliente di verificarlo, oppure
fornire al cliente un preventivo. Le professioni regolamentate debbono fornire
un riferimento alle regole professionali vigenti, al codice di condotta e
all’Ordine di iscrizione. Inutile sottolineare che è maggiormente conforme alla
direttiva un sistema tariffario piuttosto che un sistema fondato sulla libera
negoziazione del compenso. Le tariffe consentono un controllo agevole e spedito
sulla formazione del prezzo e sulla rispondenza del corrispettivo all’ oggetto
e alla qualità della prestazione
fornita. La “posizione comune” non prevede
l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, ma, in caso
essa sussista (in quanto obbligatoria) il professionista deve comunicarlo al
cliente. L’assicurazione è uno strumento di tutela del professionista e del
cliente, e per questo il CNF ne suggerisce l’adozione. Quanto alla pubblicità,
cioè alle comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate,
l’ art. 24 della direttiva prevede che «gli Stati membri sopprimono tutti i
divieti totali» ma le comunicazioni debbono ottemperare alle regole
professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in
particolare – ad ancora una volta – «l’indipendenza, la dignità e
l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto
della specificità di ciascuna professione». Inutile dire che il testo
attuale del nostro codice deontologico, fondandosi sulla qualità,
l’aggiornamento obbligatorio, l’informazione del cliente non richiede radicali
innovazioni, ma alcuni adeguamenti e corrette interpretazioni. Sarebbe segno di
una malintesa cognizione del diritto comunitario ritenerlo in contrasto con la
disciplina vigente e con il progetto di direttiva sui servizi.
4. - La
tutela del consumatore.
L’indirizzo che si
autodefinisce liberista insiste sull’esigenza di tutela dell’interesse pubblico
identificato con l’interesse dei consumatori. E’ questo lo scopo enunciato dal d.l. 4. luglio 2006, n. 223, come convertito
nella l. 4 agosto 2006, n. 248. Esso reca
nel titolo una dizione riassuntiva così formulata: «Disposizioni urgenti per il
rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della
spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale». All’art. 1
queste misure sono presentate, oltre che in un quadro di riferimenti
costituzionali, come dettate dall’«improcrastinabile esigenza di rafforzare la
libertà di scelta del cittadino consumatore e la promozione di assetti di
mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio
dell'economia e dell'occupazione, attraverso la liberalizzazione di attività
imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro». Sempre l’art. 1
dispone che queste misure sono «adottate ai sensi degli articoli 3, 11, 41 e
117, commi primo e secondo, della Costituzione, con particolare riferimento
alle materie di competenza statale della tutela della concorrenza,
dell'ordinamento civile e della determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». E sono «necessarie ed
urgenti per garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del
Trattato istitutivo della Comunità europea ed assicurare l'osservanza delle
raccomandazioni e dei pareri della Commissione europea, dell'Autorità garante
della concorrenza e del mercato e delle Autorità di regolazione e vigilanza di
settore». L’art. 1 dovrebbe svolgere la funzione di “preambolo” e di
orientamento esegetico dell’interprete, costretto ad aggirarsi tra regole, brandelli di regole, principi, modifiche a
testi unici, e tante altre espressioni del potere normativo riguardanti settori tra loro assai distanti,
privi di una logica di coordinamento e di un quadro organico d’insieme. L’art. 1 è
però utilizzato dai fautori del “decreto” a sostegno delle regole che
hanno modificato la disciplina delle professioni, in particolare
attraverso l’art. 2. Essi effettuano
così una triplice manipolazione interpretativa incarnata testualmente nelle
formule della disposizione: contrappongono
gli interessi dei professionisti a quelli dei consumatori, danno
l’impressione che il decreto attui regole costituzionali e quindi sia esente da
mende di incostituzionalità, dànno l’impressione che il decreto ponga
in linea l’ordinamento interno con il Trattato CEE, richiamandone alcune
disposizioni, e cercano così di
dimostrare che con questo decreto l’ordinamento italiano si mette al passo
con il diritto comunitario, perché il
decreto sopprimerebbe regole
obsolete in contrasto con la disciplina
comunitaria dei servizi e della concorrenza. Quanto ai richiami costituzionali,
è appena il caso di segnalare che la disciplina delle professioni non è
contenuta nell’art. 41 Cost.,ma, trattandosi di lavoro autonomo, è contenuta
negli artt. 35 ss. Allo stesso modo,gli artt. 43, 49,81,82,86 del Trattato
CEE riguardano servizi e concorrenza, ma
queste disposizioni debbono essere rilette alla luce della Carta di Nizza e del
Trattato costituzionale. Ma quali sarebbero i vantaggi dei consumatori in
questo settore? I vantaggi sono enunciati con tono perentorio da un documento
che accompagna , a mo’ di commento, il
lettore nell’interpretazione del testo,
un documento di cui si fanno scudo i fautori del decreto[18].
L’abolizione della obbligatorietà delle tariffe è presentata con queste parole:
«Per i servizi professionali arrivano parcelle ‘negoziabili’ tra le parti e
legate al risultato della prestazione. Con una norma del decreto legge si
abrogano le disposizioni normative e regolamentari che prevedono
l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime e il divieto di pattuire compensi
parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. In seguito alle
modifiche introdotte dal Parlamento si è precisato che il compenso
professionale degli avvocati negoziato con gli utenti deve essere espresso in
un accordo scritto». Precisiamo,
innanzitutto, che le tariffe continuano a costituire il parametro di
riferimento per il giudice nella liquidazione del compenso dell’avvocato nei
casi indicati dallo stesso art. 2, secondo comma. I compensi parametrati ai
risultati ottenuti erano oggetto di possibili negoziazioni tra avvocato e
cliente, sempre che non portassero al “patto di quota lite” o ad una
sproporzionata retribuzione dell’avvocato. Il decreto riscrive l’art. 2233
cod.civ. e sembra ammettere il patto di quota lite, se concluso in forma
scritta. Ma sottrarre al cliente una percentuale dei risultati della
controversia significa tutelarlo? Appropriarsi dei diritti del cliente è
lecito, eticamente e giuridicamente? E’
questa una equazione ragionevole? Negoziare la qualità della prestazione è un obiettivo che reca vantaggi al consumatore? Il decreto
vorrebbe promettere (secondo i suoi
fautori) la «riduzione delle parcelle» e
una «maggiore efficienza nelle prestazioni offerte». Anche qui c’è una
equazione che non torna: se il compenso è negoziato, e non si applicano le
tariffe – che pure rendono paritetico e trasparente il rapporto economico dell’avvocato con il cliente – il cliente sarà automaticamente in una posizione
di forza contrattuale tale da riuscire ad ottenere una riduzione del dovuto? E
la maggiore efficienza nelle prestazioni si dovrà alla negoziazione? Per effetto della nuova normativa – si legge sempre nel documento dei fautori del decreto - <I liberi
professionisti possono far conoscere agli utenti i servizi offerti attraverso
la pubblicità informativa. Ora, ad
esempio, anche sulle riviste informative di pubblica utilità si può
‘selezionare’ il professionista più adatto e conveniente alle proprie esigenze
.Con una norma del decreto legge si abroga il divieto di pubblicizzare i titoli
e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e
il prezzo delle prestazioni>. Per
quanto riguarda i servizi legali, già ora
il codice deontologico consente l’informazione sui titoli acquisiti
effettivamente ( e non su quelli inventati dal professionista) ; ma quali
prezzi potranno essere esibiti? Ogni
questione ha una storia a sé, profili giuridici specifici da studiare e approfondire, ogni difesa ha
la sua logica e i suoi tempi, e l’avvocato non può predire il futuro perché – a
differenza degli altri professionisti – il risultato della sua attività è mediato dal giudice. Allora si tutelano davvero i consumatori
perché ora essi si possono affidare a messaggi pubblicitari (di cui conosciamo
tutti la dubbia affidabilità)
per scegliere il proprio difensore? La risposta che ci danno i fautori del decreto appare un po’ ingenua, se non
mistificante: «L’utente avrà maggiori informazioni a sua disposizione e quindi
più possibilità di comparazione e di scelta» (come se la soluzione di un
problema giuridico potesse porsi sullo stesso piano di un servizio informatico,
di trasporto o di telefonia). E si
aggiunge: «Il consumatore avrà anche più capacità [sic !] contrattuale».
Il consumatore maggiorenne non interdetto ha certamente “capacità
contrattuale”. Forse, qui si voleva dire “potere” contrattuale, inteso in senso
economico-sociologico. Ma, come sopra si è osservato, solo le grandi società,
le banche, le assicurazioni, hanno un potere contrattuale che può prevalere su
quello del singolo avvocato. Proprio per questo il codice civile proibisce il
patto di quota lite, e il codice deontologico
ancora oggi sanziona l’avvocato che profitta dell’ ignoranza del
cliente. I vantaggi che si vorrebbero assicurare al consumatore , sul lato
delle professioni, non finiscono qui. Si dice ancora: «L’utente potrà
rivolgersi a società multidisciplinari (formate da architetti, avvocati, notai,
commercialisti ecc…) Con una norma del decreto legge si abroga il divieto di
fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di
società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che il
medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la
specifica prestazione deve essere resa da uno o più professionisti previamente
indicati, sotto la propria personale responsabilità». Ma non si dice che il
divieto aveva la funzione di prevenire i conflitti d’interesse, di assicurare
all’avvocato ( e quindi al cliente) l’indipendenza da partners che potrebbero
preferire il perseguimento dell’interesse della società rispetto a quello del
cliente, la possibilità da parte dell’avvocato di scegliere – nell’interesse
del cliente – il professionista di altra materia che di volta in volta riteneva
più appropriato. Ora, sollecitando i professionisti ad associarsi anche in
“società multidisciplinari” tutti questi vantaggi andranno persi, certamente in danno del cliente. E poi non è
detto che la rimozione del divieto si traduca in una rincorsa alle associazioni
…Del tutto non consequenziale rispetto
al significato oggettivo del provvedimento è poi la considerazione secondo la
quale «Si apre la possibilità di creare studi italiani più competitivi a
livello internazionale», come se già oggi non vi fossero studi di questo
livello o come se vi fossero divieti a costituirli, o come se non si sapesse
che gli studi internazionali che operano in Italia si avvalgono di avvocati
italiani. Gli avvocati italiani che volessero espandersi all’estero sono ostacolati da fattori oggettivi: dalla
lingua italiana, che gli stranieri non conoscono, dal diritto italiano, che gli stranieri non apprezzano, perché scritto in una lingua che non
comprendono, dall’ambiente in cui operano,
perché il Paese, il sistema-giustizia, il
sistema politico che abbiamo sono a torto o a ragione oggetto di critica[19].
Non sono certo questi i “vantaggi” che
si meritavano i consumatori. Non è certo introducendo misure che favoriscono
l’accaparramento di clientela e l’offerta di prestazioni professionali
sottocosto che si tutelano i diritti dei consumatori. Non sono certo
questi i diritti per l’affermazione dei
quali abbiamo combattuto come giuristi e come difensori, i diritti sui quali abbiamo costruito un sistema di informazione, di protezione
e di tutela giudiziale, uno status che abbiamo teorizzato , accreditato
e codificato. Né ci saremmo aspettati che – mettendosi il berretto frigio – il
legislatore avrebbe riconosciuto un “cittadino-consumatore” e disconosciuto il
“cittadino-professionista”! Non mi soffermerò sui profili di incostituzionalità
della disciplina attuale, perché essi sono stati ampiamente e persuasivamente declinati nelle opinioni
che autorevoli studiosi della materia hanno
espresso , senza avere registrato confutazioni o critiche.
5. - I principi-quadro in materia di
professioni.
Vorrei invece
ricollegarmi al testo con cui si era chiusa la XIV legislatura – il d.lgs. 2
febbraio 2006, n. 30 – con cui si sono
dettati i principi- quadro in materia di professioni, diretti a
delimitare i confini della legislazione concorrente tra Stato e Regioni in
questo ambito. Il decreto riconosce l’esercizio della professione quale «espressione
del principio di libertà di iniziativa economica», da svolgere sì in conformità
alla disciplina statale della concorrenza,
ma tenendo conto delle «deroghe consentite dal diritto comunitario a
tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti», e della «riserva di
attività professionale, delle tariffe e
dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale». Il
decreto precisa che «la regolazione delle attività professionali si svolge nel
rispetto dei principi di buona fede, dell’affidamento del pubblico e della
clientela, della correttezza, della tutela degli interessi pubblici, dell’ampliamento e della
specializzazione dell’offerta dei servizi, dell’autonomia e responsabilità del
professionista». Il decreto si conclude con una norma di rinvio, che fa salvi i
principi «riguardanti specificamente le
singole professioni». È questo il quadro di principi da cui si deve partire,
considerando che l’esercizio delle professioni liberali è oggetto di lavoro
autonomo. Più volte abbiamo
insistito sulla tutela costituzionale dell’Avvocatura, sul riconoscimento che
alle libere professioni, distinte dall’attività d’impresa, è dato nella Carta
di Nizza, che enuncia i principi costituzionali sui quali si regge l’Unione
europea, in ogni occasione abbiamo rivendicato la specificità della professione
forense, che non può essere né appiattita né sconvolta da interventi
legislativi erratici, sommari, asistematici e punitivi. “Scrostare” la
disciplina delle professioni significa non tanto rimuovere privilegi e immunità
corporative ma al contrario porsi in contrasto con i valori dell’ Unione
europea e con le linee direttrici dei principi costituzionali del nostro Paese.
6. - I progetti di riforma della disciplina
delle professioni.
La
riforma della disciplina delle professioni – sulla quale ha dovuto concentrarsi
la seconda sessione del nostro Congresso, come si dirà in modo compiuto e
dettagliato anche nello spazio riservato all’intervento del Consiglio Nazionale
Forense – non può che articolarsi su di un duplice livello: inquadrati i principi
del diritto comunitario, rettamente inteso, e i principi costituzionali,
riservata allo Stato la potestà legislativa in materia, salvi i poteri di
sostegno finanziario che le Regioni sono titolate ad esercitare – i principi
generali debbono lasciare spazio alle peculiarità delle singole professioni.
L’Avvocatura, come si è tante volte ripetuto e come ha statuito la Corte
costituzionale, ha una funzione essenziale irrinunciabile, indefettibile,
insopprimibile. Dal punto di vista della tecnica legislativa, un sistema
normativo così complesso non può che affidarsi ad una legge di delega, a cui
seguano singoli decreti delegati che tengano conto delle specificità
professionali. Le professioni liberali “regolamentate” trovano negli Ordini la
loro essenza: è questo un connotato che si riscontra in ogni modello normativo europeo; anche in Inghilterra i barristers
debbono essere iscritti al Bar Council, e i solicitors sono
ascritti alla Law Society. Ampliare il numero degli Ordini o costituire
“associazioni professionali” è una scelta, politica e di opportunità, che non
si può considerare dirimente. Gli Ordini non possono essere soppressi, le
associazioni possono essere istituite liberamente.Ma non possiamo neppure
accettare che gli Ordini siano conservati ma “svuotati di fatto” delle loro
funzioni. Almeno quattro limiti mi sembrano necessari perché
il sistema possa reggere su salde fondamenta. Il primo limite è dato da una
scelta di campo: se non si intende istituire nuovi ordini, le associazioni professionali siano
riservate alle nuove professioni.
Appare evidente che il sistema duale non può prevedere modelli normativi
identici, altrimenti vi saranno due fattispecie normative riguardanti il
medesimo oggetto. Questo non significa ovviamente che alle professioni nuove o
emergenti non si voglia riconoscere dignità e utilità; anzi, la istituzione
delle associazioni professionali darà maggiori garanzie di controllo e qualità
dell’attività professionale. Come
emergeva già dai primi progetti degli anni Novanta, le associazioni
professionali dovrebbero conservare la
loro natura privatistica. In ogni caso, se ad esse si volesse riconoscere
natura pubblicistica, l’iscrizione obbligatoria del professionista non potrebbe
che comportare la scelta di uno, ed uno soltanto, degli organismi istituzionali, salve le eccezioni già ora
consentite. Il secondo limite è dato dalla necessità di distinguere e di non
sovrapporre gli ambiti dell’esercizio professionale. Ogni Ordine ed ogni
associazione debbono mantenersi entro i confini tipici della professione
tutelata, con la salvaguardia delle riserve dettate dall’interesse pubblico. Il
terzo limite è dato dalla impossibilità di scelta della iscrizione ad una
associazione professionale da parte di chi, per il tipo di titolo acquisito, è
tenuto, se vuole svolgere la sua professione, ad iscriversi ad un Ordine . Si è
di recente sostenuto che < il principio di liberalizzazione (…) dovrebbe
riguardare la possibilità per una
persona in possesso dei requisiti formativi e di abilitazione relativi a
determinati ambiti di conoscenze professionali (…) di iscriversi liberamente a
un organismo ordinistico fra quelli definiti per legge come in grado di
qualificare le sue competenze e il suo sviluppo professionale>[20].
Per quanto riguarda l’avvocato, la sua iscrizione all’ Albo e la sua soggezione
all’ Ordine sono garanzie di tutela dell’interesse pubblico, attesa la
rilevanza costituzionale e sociale della sua professione. L’ avvocato che non
si iscrive all’ Albo o si cancella dall’ Albo, per iscriversi ad una
associazione professionale diversa svolge una professione diversa. E se
mantiene il suo titolo si espone,
dall’esterno, al rischio che il cliente che si rivolgesse a questo professionista o allo studio
costituito con professionisti iscritti ad
altre associazioni , avrebbe l’aspettativa di trovare un difensore dei propri
diritti, non potendo invece fruirne,
perché solo chi è abilitato con il suo titolo a patrocinare dinanzi alle Corti
può dare queste garanzie e questo tipo di “servizio”. Ma non è solo l’affidamento pubblico che ne
verrebbe a soffrire. Gli Ordini, non soppressi, ma svuotati a beneficio delle
associazioni, finirebbero per avere un ruolo marginale, in un sistema che
invece ne postula l’esistenza, l’efficienza, l’autorevolezza. L’avvocato che si
cancella dall’ Albo si sottrae alla disciplina deontologica forense, si sottrae
agli obblighi contributivi, si
“mescola” con altri professionisti perdendo la sua identità tipica. Il quarto
limite è dato dal fatto che – salvo l’intervento dell’ Autorità giudiziaria e
le competenze del Ministero della Giustizia
- gli Ordini sono enti pubblici non economici a cui la costante
interpretazione costituzionale ha conservato autonomia e competenze di ambito
nazionale[21]. Nessuna
autorità, all’infuori dell’ A.G.O. e
del Ministro della Giustizia, possono interferire nell’esistenza e nella vita
dell’ Ordine.
7.
- Qualità e “riserve” nel c.d.
sistema duale.
Puntare
sulla qualità, sulla formazione continua, sulla certificazione,
sull’applicazione dei codici deontologici
sono tutti obiettivi che l’ Avvocatura si è data e sta mettendo in
pratica, persuasa che sia questa la via più efficace, anche se impegnativa e
meno “mediatica”, per tutelare la collettività: sia i consumatori, che possono
beneficiare così di una prestazione di qualità, competente e aggiornata, sia i
professionisti stessi, che sono incentivati ad aggiornare e affinare le proprie
competenze per garantire standards professionali sempre più elevati. Migliorare
la preparazione culturale e pratica già nell’ambito della formazione
universitaria, nell’ambito del tirocinio e delle Scuole professionali, imporre l’ aggiornamento continuo,
l’assicurazione della responsabilità civile, migliorare il procedimento
disciplinare, dissociare la fase istruttoria da quella giudicante,
eventualmente collocandola a livello distrettuale, riformare il regime delle impugnazioni, istituire un sistema di
crediti e curare il rilascio di diplomi di specializzazione, curare corsi
formativi, di aggiornamento, di ausilio a tutti gli avvocati e ai tutors
delle Scuole è stata ed è la preoccupazione costante del CNF, che ha svolto
queste i iniziative sia direttamente, sia attraverso il suo Centro di
formazione, sia attraverso la Fondazione dell’Avvocatura e, nell’immediato futuro, anche mediante la Scuola Superiore
dell’ Avvocatura. Vorrei però insistere, e rendere ancora più esplicito il
discorso sul c.d. sistema duale e sui pericoli che si annidano in proposte,
peraltro precedentemente mai affacciatesi all’orizzonte, che potrebbero
sconvolgere il sistema delle professioni. Nel nostro Paese, le difficoltà di
procedere ad una riforma delle professioni hanno di fatto impedito, negli
ultimi decenni, al sistema professionale “ordinistico” di accompagnare
pienamente lo sviluppo delle tecnologie, delle conoscenze, delle emergenti
professionalità. Decine di disegni di legge di riconoscimento di professioni
hanno intasato nelle ultime legislature i lavori parlamentari, di fatto senza
alcun esito. Di qui il nascere e l’affermarsi di forme alternative di
“organizzazione professionale”, quali le libere associazioni, che hanno
riempito tale vuoto e si propongono oggi come soggetto autonomo nel dibattito
tecnico-politico sulla riforma delle libere professioni. A tale proposito, è
innegabile che in settori totalmente privi di rappresentanza
professionale) le associazioni
rappresentano un prezioso strumento di “gestione e controllo” dell’intero
comparto. Ma è anche innegabile che, in comparti dove esistono professioni
regolamentate, tali associazioni hanno ben altre caratteristiche e ben altre
finalità. Infatti, il legislatore riconosce un settore
professionale come meritevole di tutela - tanto da istituire specifici Ordini
professionali – quando: si è in presenza di
una grave asimmetria informativa (difficoltà o impossibilità da
parte del cittadino nel giudicare
caratteristiche, qualità e garanzie di una specifica prestazione) si possono
verificare danni gravi ed irreversibili a carico della collettività in
caso di prestazione non adeguata agli
standards professionali. In questi casi la legge ha istituito specifici enti
pubblici associativi a garanzia del cittadino (gli Ordini professionali)
demandando loro il compito di accertare le capacità tecnico professionali degli
iscritti, di vigilare sul modo in cui si rapportano con il cliente, di curarne
la formazione e l’aggiornamento. Corollario di tale disciplina legislativa non
è – (evidentemente) tranne alcune eccezioni, come il patrocinio legale per gli
avvocati – il divieto di esercitare la professione da parte di soggetti non iscritti negli Ordini, quanto il fatto
che il
cittadino che si rivolge ad un professionista per certe prestazioni
possa contare su queste garanzie e su
questi controlli. Corollario dell’Ordine non è di per se l’esclusiva, bensì il
plusvalore rappresentato dal fatto che quella prestazione possa essere svolta
da un soggetto che spende un titolo professionale e che è soggetto ad una
deontologia, ad un procedimento disciplinare, ad una vigilanza pubblica sul
proprio operato, in quanto membro di un ordinamento sezionale dotato dei crismi
della giuridicità (dove si rinvengono plurisoggettività, normazione, autorità).
Posto il pieno rispetto per la libertà di associazione (art. 18 Cost.), nulla
vieta che si affermi – come qualcuno fa
sempre più spesso - la legittimità di forme associative alternative agli Ordini
anche se non soprattutto in settori in cui la legge prevede la presenza di uno
o più Ordini professionali. Il punto non è quello di consentire o meno tale
associazioni, senz’altro legittime sotto il profilo giuridico. E nulla vieta
che queste associazioni rilascino attestati circa il fatto di essere iscritto,
o di avere seguito dei corsi. Il punto è il riconoscimento pubblico delle
associazioni, come presupposto di una valenza in qualche modo generale
(pubblica, appunto) di tali attestati. La vera posta in gioco è la possibilità
per tali associazioni di reclamare per sé uno status “più che privato”, che
conferisca loro una veste pseudopubblica che dia valore agli attestati
rilasciati. La vera posta in gioco è la “fede pubblica”. Ciò che occorre
proteggere è l’affidamento del cittadino-utente: la clientela non
particolarmente informata può non distinguere tra un iscritto ad un ordine, che
ha sostenuto un esame di Stato, ed è membro di un ordinamento sezionale che lo
assoggetta ad un codice deontologico, ad un procedimento disciplinare
attivabile anche dal pubblico ministero, ad un obbligo di aggiornamento e
formazione, ed un iscritto ad “un’associazione professionale”, che nulla di
tutto ciò comporta. Il legislatore non può non sapere che il riconoscimento
pubblico che tali associazioni reclamano è strumentale al rilascio di attestati
dotati di un quid pluris rispetto a qualsiasi attestato che una libera
associazione privata può rilasciare, per di più senza i costi della vigilanza
ministeriale. È evidente che in questi
casi l’errore è dato da una eccessiva generalizzazione. Invece di postulare un
eventuale riconoscimento (secondo criteri molto seri e procedure controllate)
di associazioni di soggetti che esercitano attività professionali o
paraprofessionali non comprese in settori già regolamentati, si chiede di
riconoscere “tout-court” associazioni che sono spesso lo sbocco di quanti, per
motivi diversi, non sono riusciti ad entrare in un Albo professionale e ciò
nonostante pretendono di esercitare al di fuori di questo le stesse attività e
le stesse funzioni, motivando tale richiesta con presunte “regole di mercato”. Pertanto
se da un lato non si può negare che gli Ordini professionali necessitino di una
riforma) non può essere consentito a soggetti privi della necessaria
professionalità (per definizione e loro stessa ammissione, dato che non
riescono ad essere ammessi nell’Ordine professionale corrispondente) di esercitare attività in settori ed in
materie per le quali l’ordinamento ha previsto regole e requisiti specifici. E
per legge non si intende solo le diverse leggi ordinistiche, ma la stessa
Costituzione, che all’articolo 33 prevede l’obbligo del superamento di un esame
di stato per esercitare attività professionali. Per tali motivi, appare da un
lato necessario che il legislatore presti attenzione alle problematiche delle
cosiddette “associazioni non riconosciute”, dall’altro è indispensabile evitare
fughe in avanti e soluzioni parziali, magari sotto la spinta di presunte
esigenze di mercato. Su questo versante, dunque, vi è l’assoluta necessità che
l’eventuale riconoscimento delle associazioni delle “nuove professioni”
riguardi appunto attività nuove, e non spezzoni di attività già proprie
di professionisti iscritti in albi, senza sovrapposizioni che non potrebbero
che danneggiare la trasparenza del mercato. I tentativi di ottenere questo
improprio riconoscimento sono stati numerosi. L’ultimo è di poco più di un anno
fa: con il decreto competitività (d.l. n. 35/2005), approvato definitivamente
nel maggio del 2005: l’emendamento
approvato nottetempo dalla Commissione Bilancio del Senato, ha
cancellato le parole “regolamentate e tipiche” dalla formulazione originaria,
sostituendole con la parola “riservate”, accompagnato da una sorta di
“pentimento in extremis”, e cioè da un Ordine del giorno, assolutamente
insufficiente, che impegnava il Governo a mantenere, durante la discussione in
Aula, la parola “regolamentate” nel testo dell’art. 2, comma 8 del decreto
legge, così come emendato dalla Commissione bilancio del Senato. Non è
evidentemente sufficiente la menzione delle attività riservate, anzi questa è
probabilmente superflua, ove si consideri che è del tutto ovvio che non possano
riconoscersi associazioni relative ad attività professionali riservate ad
iscritti in albi. A fronte di queste argomentazioni il maxiemendamento fu
ritirato, con lo stralcio del comma 8 dell’art. 2 del decreto legge n. 35/2005.
È insomma necessario che una corretta distinzione tra ordini e associazioni
contempli criteri che consentano il riconoscimento di associazioni relative ad
attività che non sono “caratterizzanti”, “tipiche” o meglio qualificanti
di professioni già regolamentate dalla legge. Potranno dunque riconoscersi solo
associazioni di soggetti che svolgono altre e diverse attività, non
sovrapponibili a quelle degli iscritti agli Ordini. Insomma, si impone
l’esigenza di una netta distinzione tra le due anime del sistema professionale,
proprio a tutela dell’affidamento della clientela, che è il fondamentale
interesse pubblico di rango costituzionale sotteso alla disciplina delle
professioni, come anche di recente, con la sentenza 405/2005 la Corte
costituzionale ha ribadito. Il “cittadino cliente” ha diritto ad un mercato
professionale trasparente e chiaro. Associazioni “parapubbliche” non possono
che danneggiare questo diritto, se insistono su ambiti di attività già propri
degli iscritti negli albi. [22]
L’alternativa è ampliare l’area delle
riserve, a cominciare dalla consulenza legale , per la quale l’ Avvocatura in
molte occasioni, e da ultimo al XXVII Congresso nazionale , ha proposto
l’introduzione di una disciplina appropriata,
che sia diretta alla prevenzione delle liti e ne assicuri un qualificato
espletamento.
8. - Per una riforma urgente dell’ ordinamento forense.
Ma tutto ciò non
basta. L’Avvocatura ha bisogno di un intervento urgente che riformi l’esame di
abilitazione, che consenta agli Ordini di verificare l’effettivo esercizio
della professione da parte degli iscritti, che riformi il procedimento
disciplinare, che introduca forme e modi di aggregazione degli avvocati senza
intaccare il principio di autonomia e
indipendenza. Non dunque l’ingresso a soci di capitale, non subordinazione con
contratto di lavoro dipendente dell’avvocato ad altro avvocato, non commistioni
con altre professioni, se non quelle consentite dalla interdisciplinarietà
compatibile con la professione forense. Nella giornata di domani, secondo la
scansione dei temi congressuali che è stata decisa all’unanimità da tutte le
componenti dell’ Avvocatura, il CNF discuterà le linee fondamentali della
riforma urgente che l’ Avvocatura attende ormai da anni.[23]
Le due linee di riforma – il quadro generale delle professioni, le regole
speciali dell’ Avvocatura – possono coordinarsi senza allungare i tempi.
D’altra parte, lo si è già fatto: in via generale, per il riordino del sistema
elettorale e la composizione degli organi di ordini professionali con il d.p.r.
8.7.2005,n.169, da cui sono stati esclusi tuttavia gli Ordini forensi; in via
particolare, per due categorie
professionali di grande rilievo: i commercialisti e i ragionieri, con la l.
24.2.2005, n. 34; i notai, con la l. 24.2.2005, n. 34, il d.lgs. 1.8.206, n.
249 e la l. 24.4.2006, n. 166.
9. - Il ruolo dei giovani e le prospettive dell’Avvocatura.
Quando si parla
dei giovani – studenti, praticanti, avvocati – sorge innanzitutto il problema
della legittimazione a trattare l’argomento e a prospettare regole che
potrebbero incidere sul loro futuro da parte di chi ormai ha una carriera e un
tratto di vita alle spalle. E’ evidente che
il futuro dei giovani si deve costruire insieme con loro ed è
altrettanto evidente che non vi possono essere conflitti d’interesse, perché
chi si trova a poter proporre
iniziative e progetti o addirittura a dover decidere su di
loro non può che esprimersi per loro, cioè a loro favore. Anche
quest’anno già i primi dati raccolti dagli esami di orientamento per
l’iscrizione alle Università indicano che la Facoltà di Giurisprudenza
costituisce ancora uno dei percorsi formativi più ambiti, nonostante la connessione tra il titolo
conseguito e gli sbocchi lavorativi restino incerti e assolutamente insoddisfacenti.
Il modello di corso di laurea magistrale
(1+4) che sottolinea la professionalità e quindi si pone come lo
strumento ideale per avviarsi alle professioni legali è parso al CNF ancora
debole, nella convinzione che solo se
si consente agli studenti di acquisire una formazione qualitativa di eccellenza
curvata sulle esigenze delle professioni legali già negli anni universitari è
possibile procedere ad una selezione accurata e non casuale degli aspiranti
all’esercizio dell’ Avvocatura. La qualità fa premio anche nell’accesso alle
Scuole, e nel periodo del tirocinio, che deve essere effettivamente formativo e
non solo un mezzo di lavoro ancillare o
di parcheggio in attesa di migliori occupazioni. Sì che accanto alla formazione
teorica e pratica occorre una gratificazione economica proporzionata
all’attività effettivamente svolta e al
contributo offerto. Occorre ripensare ai sussidi economici per le categorie
meno abbienti, perché, al di là delle tradizioni familiari sulle quali si è
costruita gran parte dell’esperienza
forense che costituisce il vanto della
nostra professione, la trasmissione del sapere possa raggiungere ancor più
facilmente chi, essendo meritevole, si
trova a disagio per la difficoltà di
uscire dal suo milieu sociale o di fare ingresso in uno
studio professionale. Borse di studio, mutui agevolati, stages, e ogni altro
modo per garantire pari opportunità costituiscono oggi proposte che il CNF promuove con convinzione. Nel marzo scorso abbiamo organizzato il
primo congresso di aggiornamento forense, a cui si sono iscritti gratuitamente
più di 1.400 avvocati. In luglio abbiamo varato, primo ordine in Europa, un
corso a Londra per gli Avvocati italiani,
di inglese giuridico e di diritto contrattuale e bancario. E’ stato
seguito, con entusiastici risultati, da 130
giovani avvocati provenienti da tutti distretti , ed ha consentito a
loro non solo di apprendere nozioni e
tecniche, ma anche di capire un diverso
sistema e di avviare utili contatti con gli studi locali. Ben diverso è il
discorso sull’accesso alla pubblicità diversa da quella informativa: le risorse
economiche dei giovani e destinate ai giovani
debbono essere indirizzate alla formazione e qualificazione
professionale, alla organizzazione degli studi, della biblioteca e degli altri
mezzi di informazione, alla rete informatica, piuttosto che non essere disperse
nei tentativi di accaparramento di clientela.
10. - L’allineamento degli Avvocati
italiani alle professioni forensi degli altri Paesi d’ Europa.
Un leit motiv usato frequentemente ad colorandum per giustificare la
c.d. liberalizzazione della professione forense è che il sistema esistente fino
alla introduzione della l. n. 248 del 2006 impedirebbe agli studi italiani di
conquistare quote sul mercato professionale estero e invece agli studi
stranieri di stabilirsi agevolmente in Italia conquistando larghe fasce di
mercato. Tante volte si è cercato di chiarire il problema, ma la disattenzione,
l’inconsapevolezza o forse l’intenzionale
sordità impediscono alle argomentazioni
razionali di fare breccia in questo muro di ostinata opacità. Gli studi
stranieri che preoccupano molti sono tali solo per la sede principale, ma sono
composti da avvocati italiani, che hanno una formazione e un curriculum che
consente loro di seguire affari internazionali, sofisticate operazioni
societarie o finanziarie. Vi sono molti modi, come sopra dicevo, di esercitare
la professione. La nostra è una professione diffusa, e quindi è impensabile
ridurre i 180.000 avvocati italiani a 180 studi di 1000 avvocati ciascuno, oppure a 1800 studi di 100 avvocati ciascuno. Le aggregazioni
possono avvenire in via verticale, secondo la
dislocazione geografica, in via orizzontale a seconda dei diversi
settori di competenza, anche
temporaneamente, per partecipare a gare promosse da grandi società, Ministeri,
altre istituzioni. Ma la realtà italiana è costituita dall’ Avvocatura che si
occupa della fascia media e piccola delle questioni, che coniuga l’attività
giudiziale con quella stragiudiziale, e rifiuta quindi la distinzione tra
“avvocati d’affari” e “avvocati di toga”,
e pure la parcellizzazione delle competenze. Quando si parla di “responsabilità sociale” dell’avvocato e della
rilevanza degli Ordini di piccole dimensioni si vuol alludere anche a questo:
al ruolo che l’avvocato, diffuso capillarmente su tutto il territorio svolge a
vantaggio della collettività, con il suo consiglio, con la difesa dei diritti,
con la costruzione ed elaborazione di operazioni economiche. E’ impensabile
riprodurre il modello dei grandi studi professionali a tutti i livelli della
professione forense e in ogni ubicazione geografica. Ma è anche impensabile
dividere formalmente gli avvocati in due categorie, a seconda della loro
appartenenza a “grandi studi” o a realtà professionali di più modeste
dimensioni e far dipendere dalla
loro affiliazione all’una o all’altra categoria le regole giuridiche e di etica che gli avvocati – in quanto
tali – debbono osservare. Non vi può essere uno statuto della pubblicità
informativa a maglie larghe per i primi e uno a maglie strette per i secondi,
una regola allentata per i conflitti d’interesse destinata ai primi e regole più rigorose destinate ai secondi. Questo è non, come qualcuno ha
voluto scrivere, il riflesso di una concezione “medievale e corporativa” della
professione, ma piuttosto una conseguenza logica della applicazione – seria –
di regole eticamente apprezzabili. Quanto
poi all’acquisizione di porzioni di
mercati esteri, ciò spetta alla capacità, all’inventiva, all’esperienza , a
tanti fattori imponderabili che non si possono certo semplicisticamente
riferire alla mancata liberalizzazione o al ritardo nella liberalizzazione dei
servizi professionali nel nostro Paese. Tutti sanno che Londra è la piazza
finanziaria più rilevante del mondo, che a Londra si compiono le operazioni
finanziarie più grosse, complesse, sofisticate, che modelli contrattuali,
tecniche comportamentali etc. sono il complesso di un’esperienza di cui gli studi inglesi sono portatori , ma
soprattutto, che il modello giuridico di common law , per ragioni varie che non è il caso di
ribadire in questa sede, è uno dei modelli vincenti nel mondo intero e che il
modello giuridico italiano per ragioni di lingua, di complessità, di lentezza
nella amministrazione della giustizia , e per l’inaffidabilità e debolezza
politica del nostro Paese (così come viene rappresentato all’estero) è un
modello debole, anzi, recessivo. Per queste ragioni il CNF, ormai da molti
anni, come risulta dalle sue pubblicazioni e dalle innumerevoli iniziative
promosse, diffonde la conoscenza e la pratica del diritto comparato, del
diritto comunitario, del diritto privato europeo. Si batte per un “codice
civile europeo”, consapevole che nella competizione degli ordinamenti quello
italiano è cedevole, per non dire soccombente, mentre, in un codice civile in
cui tutti gli avvocati d’Europa possono condensare la loro cultura e la loro
esperienza, gli avvocati italiani aumentano notevolmente le loro chances,
possono far valere la loro abilità , lottando ad armi pari. Se si
dovesse dare prove di questi assunti, basterebbe considerare il credito goduto
dai nostri Colleghi che curano il diritto comunitario e il diritto internazionale, pubblico, privato e
processuale: essi certamente non sono penalizzati dalla loro nazionalità per
mietere i successi che mietono dinanzi alla Corte del Lussemburgo e alla Corte
di Strasburgo. E si pensi all’arbitrato internazionale, agli arbitrati istituzionali in cui le
Istituzioni arbitrali scelgono arbitri italiani senza discriminazioni dovute
alla nazionalità. Insomma, quando l’avvocato italiano è in grado di lottare ad
armi pari, non gli fa certo velo la sua nazionalità. D’altra parte, tutti gli avvocati italiani sono orami tenuti a conoscere le basi e a cooperare per la realizzazione integrale dello spazio
giudiziario europeo[24],
oltre che per la creazione di un diritto sostanziale civile, penale e
amministrativo di livello e con contenuti “europei”.
11. -La partecipazione degli Avvocati
italiani all’edificazione dell’ Avvocatura europea.
Distratti dalle
diatribe interne e dalle innovazioni legislative inattese abbiamo cercato di non perdere la
possibilità di seguire compiutamente ciò che si agita in ambito europeo . I
temi sul tappeto sono molti e assai ilevanti:
non solo la disciplina della concorrenza e dei servizi, non solo la
disciplina antiriciclaggio, la deontologia, il training, l’accesso alle
giurisdizioni superiori, l’assicurazione,
i giuristi d’impresa, ma anche il diritto processuale, il diritto contrattuale, il diritto penale, la responsabilità sociale delle imprese,
l’informazione tecnologica, l’assistenza giudiziaria dei meno abbienti, i
diritti umani, il diritto societario, il diritto di famiglia, le politiche dell’ Avvocatura nei Paesi dell’
Europa Centrale e dell’ Est[25].
E sono sempre più incalzanti i problemi della globalizzazione dei mercati e
dell’apertura dei mercati d’Oriente. Il modello di codice civile italiano è
stato utilizzato, insieme con gli altri principali modelli di civil e common
law, in Cina per la redazione del
nuovo codice civile. Così non è stato per la redazione dei codici civili degli
ex-Paesi socialisti, perché i giuristi italiani non hanno avuto quel supporto istituzionale e politico che gli
avvocati americani e inglesi, francesi
e tedeschi, e persino olandesi, in collaborazione con studi professionali ,
imprenditori e investitori hanno ricevuto per poter esportare insieme
con le regole anche la loro esperienza e competenza professionale. Anche questo
è uno scenario che si apre , una prospettiva da cogliere con intelligenza e
intraprendenza. Ma tutte queste occasioni, fino ad ora mancate, ma in parte
recuperabili, richiedono una strategia comune , interna e compartecipata con
l’imprenditoria e con gli enti privati e pubblici, con le iniziative
diplomatiche e con le strategie economiche complessive del Paese. Per fare tutto ciò dobbiamo partire da una
base solida e operare in un clima disteso. Il nostro lavoro richiede serenità
ed attenzione, ora messe a repentaglio dalla conflittualità che deve essere
ricomposta al più presto con la collaborazione di tutti. Il nostro passato è
stato fulgido, il nostro futuro non può
essere incerto: non ne soffrirebbe solo
la nostra categoria, ne sarebbe vulnerata l’intera collettività.
[1] Alpa, Relazione di apertura del XXVIII Congresso nazionale forense: «Amministrare la Giustizia: gli Avvocati per governare il cambiamento», in Rass.forense, 2006, I,1.
[2] Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1585 (alla voce «Avvocati»), rist. Olschki,Firenze, 1996.
[3] “Fabbrica del programma”, p. 53.
[4] Luzzati, La politica della legalità.Il ruolo del giurista nell’età contemporanea, Bologna, 2005; Hazard e Dondi, Etiche della professione legale, Bologna, 2005; Malinvaud, Introduction à l’étude du droit, Parigi, 2006, p. 378 ss.; Cranston, How Law Works.The Machinery and Impact of Civil Justice, Oxford, 2006; Zuckerman (ed.), Civil Justice in Crisis: Comparative Perspectives of Civil Procedure, N.Y., 1999.
[5] Sul punto v. Colavitti, Segreto professionale e diritto di difesa , tra obblighi “antiriciclaggio” e tradizioni costituzionali (note in margine al giudizio promosso dinanzi alla Corte di Giustizia dalla Cour d’Arbitrage belga, relativamente alla direttiva 2001/97/CE, in Rass.forense, 2006,I, p. 127 ss.
[6] The Law Society, Draft Legal
Services Bill-Joint Committee consideration.Supplementary submission from the
Law Society, 19 June 2006, a proposito del Draft Legal Services Bill elaborato
dal Department for Constitutional Affairs del 24.5.2006, vol.I, Report, Londra,
25.7.2006
[7]
V. già la Comunicazione [COM (2001) 0130 def.] che espone la Relazione
intermedia della Commissione al Consiglio europeo di Stoccolma-Migliorare e
semplificare l’ambiente regolamentare.
[8] Commissione c. Granducato del Lussemburgo, causa C-193/05
[9] Graham J.Wilson c. Ordre des avocats du
barreau de Luxemburg, causa C-506/04
[10] Elias, La società degli individui, Bologna, 1990
[11] In questo senso Dezalay, I mercanti del diritto, Milano, 1997; e, criticamente, nella vastissima letteratura, v. da ultimo Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Diritti civili ed economici in crisi, Milano, 2006; Ferrarese, Diritto sconfinato.Iniziativa giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, 2006Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, 2006, p. 84 ss.
[12] V. i material raccolti nella Parte Quinta della Rass.forense, 2006, p. 667 ss.
[13] Come dimostra il dibattito avviato sulle riviste :ad es., Mercato, concorrenza, regole, Rivista di diritto privato , Contratto e impresa, e così via, negli anni 2005 e 2006.
[14] V. Labitalia.Il lavoro adesso, notizia pubbl. da ADNKronos, il 28.3.2006
[15] V. ad es. Altroconsumo, n.183 , giugno 2005; Comunicato stampa del 5.7.2006
[16] E’ la linea da sempre seguita dal CNF:da ultimo v. Codici deontologici e autonomia privata, Milano, 2006
[17] Per l’ appunto nel testo inglese si parla di contractual relations .
[18] Ministero dello Sviluppo Economico, Cittadino consumatore.Nuove norme sulla concorrenza e i diritti dei consumatori ( nel sito web).
[19] A cominciare dai rapporti della Banca mondiale degli investimenti: in materia v. i saggi raccolti dall’ Association H.Capitant, Les droits de tradition civiliste en question.A’ propos des Rappoorts Doing Business de la Banque Mondiale, Parigi, 2006
[20] Intervento del Ministro Guardasigilli su Il Sole 24 Ore (Associazioni e Ordini garanti della formazione, 16.9.2006,p.23).
[21] V. Corte cost., sentenza n.405 del 2005
[22] Nei diversi progetti presentati nel corso della XIV legislatura ed ora all’inizio della XV si incontrano diverse formulazioni, ma tutte sono orientate a distinguere nettamente gli ambiti di materie distinti , riservati, tipici, qualificanti o, se si vuole “attratti” alla sfera di competenza delle professioni riservate. La competenza delle Associazioni professionali vale dunque “per esclusione”.
[23] V. le Relazioni predisposte dai Consiglieri del CNF e previste nel programma congressuale nel seguente ordine: avv. Agostino Equizzi, Federico Italia, Pierluigi Tirale, Alessandro Bonzo,Giorgio Orsoni , Giuseppe Bassu, Nicola Bianchi , Ubaldo Perfetti, Francesco Morgese,con l’intervento dell’avv. Pietro Ruggeri, coordinatore del Centro di formazione; e v. le Relazioni scritte degli avv. Consiglieri C.Vermiglio, Aldo Loiodice, Alarico Mariani Marini, Carlo Martuccelli, Antonio De Michele (in collaborazione con Massimo Melica) , Eugenio Cricrì, Lucio Del Paggio, Bruno Grimaldi.
[24] V. per tutti Carbone (S.M.), Lo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale.Da Bruxelles I al regolamento CE n. 805/2004, V ed. in coll. Con Amalfitano e Tuo, Torino, 2006; Micklitz, The Politics of Judicial Cooperation in the EU, Cambridge, 2005
[25] Per una rassegna di queste problematiche rinvio ai lavori della Commissione del CNF coordinata dall’avv. C.Vermiglio in collaborazione con gli avv. Monticelli, Stillo e Traversa.