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SPECIALE CONGRESSO FORENSE. RELAZIONE DI GUIDO ALPA PRESIDENTE CDF

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Relazione di Guido Alpa, presidente Cnf

 

 

1. - Premessa.

 

            A mia memoria, ma  anche nella memoria restituita dagli  annali dell’ Avvocatura, credo che questa sia la prima volta che un congresso forense si celebri contestualmente alla astensione dal lavoro, proclamata nei giorni  dal 18 al 23 settembre.        La coincidenza non è casuale: è una manifestazione del disagio in cui è stata costretta  l’ Avvocatura dalle recenti innovazioni legislative che hanno, in modo erratico e senza consultazioni, modificato, repentinamente, alcuni capisaldi della nostra disciplina. Ma si tratta di due iniziative che si svolgono su piani diversi: la seconda è volta a sollecitare un’attenzione all’esterno; la prima è la  riflessione interna sullo stato attuale e sul futuro dell’ Avvocatura italiana nell’ambito della disciplina delle professioni intellettuali. E pertanto, delusi, aggrediti ma non rassegnati gli Avvocati italiani hanno risposto all’appello del Consiglio Nazionale forense, degli Ordini e delle altre componenti dell’ Avvocatura per celebrare nella Capitale la sessione finale  del XXVIII Congresso forense. È un congresso che si è voluto totalitario perché tutti gli Avvocati con tutte le loro forme espressive e rappresentative potessero concorrere a ragionare ,  a progettare, a discutere tra loro e con gli interlocutori esterni alla categoria il ruolo dell’ Avvocatura e i capisaldi di una professione che deve comunque essere rispettata e sostenuta. Se il Congresso di fosse concluso a giugno ci saremmo trovati a ridosso di una svolta – che confidiamo temporanea – rispetto alla quale si sarebbe dovuto riconvocare in via d’urgenza un’altra assise. Siamo qui  riuniti per testimoniare e per costruire, per correggere e per integrare , per cogliere i segni del cambiamento ma anche – come ci eravamo proposti a Milano – per  governarlo[1]. A novembre, la sessione milanese si  era conclusa con molte attese. Avevamo dimostrato al Governo e al Parlamento allora in carica, alle istituzioni, alla società civile, che l’ Avvocatura era pronta a sostenere con impegno, con fatica ma anche con abnegazione  il proprio ruolo nel sistema di amministrazione della giustizia; ma si aspettava – non quale premio, o quale ricompensa , ma quale atto doveroso di collaborazione e di sostegno – un intervento sostanzioso di riforma . Non è stato così, né  possiamo immaginare  con esattezza come si chiuderà questa partita. Non abbiamo rinunciato a governare il cambiamento,  perché – la nostra storia ce lo insegna - l’ Avvocatura sopravvive nonostante tutto: nonostante le promesse mancate, nonostante le aggressioni subite, nonostante  il gratuito dileggio a cui tradizionalmente  è fatta segno[2], nonostante l’ingratitudine di cui è circondata. Ecco perché ho scelto – in modo non causale – di riprendere, quale titolo della mia introduzione, le stesse parole che comparivano nel programma elettorale condiviso dalla coalizione di forze politiche che ha poi assunto le attuali responsabilità di governo e che avevano suscitato il legittimo affidamento di noi avvocati: «dare nuovo valore all’avvocatura»[3]. Se avessimo scritto noi quel testo non l’avremmo di molto cambiato. Quel testo ci riconosce  un ruolo insopprimibile: «La professione forense partecipa attivamente all’ esercizio della giurisdizione, concorre in maniera decisiva all’efficacia ed efficienza del servizio giustizia, svolge un’essenziale funzione di tutela dei diritti individuali e collettivi e contribuisce a realizzare il sistema costituzionale delle garanzie».  Quello stesso testo ci  riconosce «la competenza in via esclusiva del patrocinio, della rappresentanza e dell’assistenza innanzi all’autorità giudiziaria o ad altra autorità che emetta un giudizio destinato a produrre effetti giuridici»;  rafforza «la natura e la democraticità degli ordini»; ribadisce «il  principio dell’autonomia e libertà dell’avvocatura»;  eleva la qualità  del sistema dell’accesso, basato sulla frequenza di scuole forensi e di specializzazione per le professioni legali , sul tirocinio e su un esame di stato finale; con  l’obbligo della formazione professionale permanente e «le modalità di verifica da parte degli ordini professionali»;  conferma   un sistema di tariffe che siano ad «un tempo garanzia per il cittadino, tutela della dignità della professione, incentivi alla soluzione rapida (giudiziale e stragiudiziale) del contenzioso» e  prevede «una partecipazione attiva dell’ avvocatura a tutte le forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione, di arbitrato e di conciliazione non giudiziale delle controversie». I valori , il ruolo e i diritti che oggi rivendichiamo avevano trovato una condivisione nei progetti di disciplina delle professioni che si sono succeduti o e oggi sono stati presentati dalle diverse  parti politiche: essi costituiscono un patrimonio comune  che non si può cancellare con un tratto di penna. È nei contenuti, oltre che nel metodo, che abbiamo contestato la svolta repentina, inconsueta e inattesa che ha sollevato la protesta ed esacerbato gli animi. Né è corretto accusarci di non avere accettato negoziazioni, che però sarebbero partite da posizioni tali da mettere in gioco l’essenza  della professione forense. Ogni cambiamento, se opportuno, deve muovere da una premessa indefettibile: la salvaguardia dell’indipendenza, dell’autonomia, della dignità e del decoro della nostra professione. Molti, anche all’interno dell’ Avvocatura, ritengono che non si debba rivangare il passato,  e si debba invece guardare solo al futuro, pensare a come l’ Avvocatura si debba rinnovare, accettando nuovi modelli e mettendo da parte privilegi, arroccamenti, chiusure corporative. È un’immagine non realistica e ingrata di una professione che in tutti gli ordinamenti è qualificata in termini di garanzia dello Stato di diritto[4]. Non sarebbe serio voltare pagina senza capire , né sarebbe serio abbandonare ogni valutazione critica; sarebbe ancor meno serio chinare il capo senza far sentire ancora la nostra voce. Una voce consapevole e pacata, che non metta a repentaglio la nostra immagine  e nello stesso tempo faccia valere il suo peso. Le attestazioni di solidarietà che abbiamo ricevuto dal CCBE, dalle rappresentanze straniere dell’ Avvocatura, dalle altre componenti professionali ci confermano nel nostro intento. E le vicende analoghe che hanno investito i nostri Colleghi europei – gli avvocati del Belgio che tramite la Cour d’Arbitrage hanno sollevato la questione di violazione delle regole comunitarie determinata dalla disciplina dell’antiriciclaggio[5], gli avvocati  tedeschi che hanno contestato l’abolizione della riserva di consulenza legale, gli avvocati inglesi che hanno contestato la “riforma Clementi”[6]– dimostrano che il vento che oggi spira in Europa non può travolgere e distruggere senza costruire consapevolezza, ragionamento, meditazione, consultazione[7] sono i cardini di ogni riforma in una società che si dice e vuole essere democratica e moderna. Anche le  sentenze della Corte di Giustizia  depositate proprio l’altro ieri – sollevano perplessità: non riguardano le tariffe, ma il diritto dell’avvocato straniero di  essere iscritto, con il suo titolo,  all’albo senza doversi sottoporre all’esame della lingua del Paese ospitante[8] , e il diritto dell’avvocato  straniero, che riceva il diniego di iscrizione all’albo, di non essere giudicato  né in primo grado né in appello , da organi composti in maggioranza da avvocati del Paese ospitante [9] . Approfondiremo nei prossimi giorni gli effetti di questi dicta.

2.  - Due modelli di concepire le professioni liberali e in particolare la professione forense.

Nello scenario delle professioni liberali  due sono gli indirizzi che si contrappongono e configgono tra loro  ormai da più di venti anni e che si riflettono, con particolare evidenza , nel mondo dell’ Avvocatura . Vi è un indirizzo che si autodenomina “liberista”  e solo per questo pretende di avere per sé il futuro, al fine di rinnovare e sviluppare  le strutture dell’economia  , renderle competitive in Europa e promuovere  forme giuridiche delle professioni che si adeguino a questi scopi e non costituiscano barriere od ostacoli a questi disegni. Questo indirizzo sfrutta l’immagine, l’angoscia del nuovo, i timori dell’era presente (un’era di sfide globali che suscitano infinite inquietudini, che pare essersi quasi interamente affidata alla “scienza triste”, per l’appunto all’economia, per risolvere i problemi della caduta dei valori, della scomparsa delle classi sociali, della rinascita della povertà). E’ un indirizzo , un modo di pensare, una concezione della vita sociale e della vita politica  nel quale convergono i sostenitori della concorrenza e della competizione senza valori e senza limiti, i sostenitori del rapporto diretto tra il cittadino e lo Stato senza rilievo delle comunità intermedie, i sostenitori di quella “società degli individui” , la società composta da monadi prive di protezione, di cui Norbert Elias ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e i pericoli[10]. In questo contesto tutto ciò che è diritto, regola, contesto normativo è considerato dal punto di vista esclusivamente funzionale e come mera sovrastruttura. E, ovviamente, coloro che rappresentano il  mondo del diritto sono dipinti con le medesime caratteristiche, funzionali al mercato e considerati mera appendice  ( eventuale e  non desiderata)  nella soluzione dei conflitti[11].  Questo indirizzo alligna ovunque: alla Direzione Generale della Concorrenza  di Bruxelles[12] come nelle aule del nostro Parlamento, nelle stanze dei Governi, nelle Università[13] e nelle istituzioni,     riceve il sostegno dei sindacati[14] e di associazioni di consumatori[15], è promosso dalle associazioni delle professioni non regolamentate e trova consensi finanche in alcune limitate frange dell’Avvocatura che pensano agli Ordini come inutili fardelli o, peggio, come scomodi watchdogs di cui ci si deve liberare  senza tanti riguardi. E vi è un indirizzo  che non si definisce conservatore ma piuttosto e realisticamente “difensore dei valori fondanti dell’ Avvocatura”  nel senso dei valori costituzionali ,  valori che hanno consentito la trasmissione della nostra cultura giuridica, antica e prestigiosa, che hanno consentito di adattare il nostro sistema  alle nuove esigenze economiche senza traumi o rivoluzioni copernicane,  che non ha registrato  reazioni negative della maggior parte delle imprese e neppure della maggior parte delle associazioni di consumatori,  e che lungi dall’essere corporativo, si affida ad un controllo diffuso della deontologia, alla  preminenza della qualità della prestazione, alla commisurazione dignitosa e sufficiente della attività prestata, alla  distinzione degli interessi del professionista da quelli del cliente, all’affermazione del prestigio come unico ed esaustivo mezzo di rappresentazione di sé, del proprio studio, e della propria competenza.[16] Questo indirizzo ha dalla sua parte il Parlamento europeo, la cui Risoluzione del 23 marzo scorso è un autentico manifesto. L’ho acclusa al testo della relazione per due ragioni concorrenti: perché nessuna istituzione  ha rappresentato e  difeso i valori delle professioni intellettuali e in particolare di coloro che svolgono attività di natura legale meglio del Parlamento europeo, e perché quel testo può essere assunto a vessillo delle nostre aspettative. Aspettative o  diritti ? Oggi gli Avvocati sono costretti a difendere i propri diritti e a non occuparsi soltanto dei diritti dei propri clienti. Ma quando gli Avvocati difendono i propri diritti difendono al contempo il loro ruolo in una società che vogliono libera , democratica, efficiente ma non asservita al mercato.  Questi due indirizzi, che compongono altrettanti modelli di disciplina delle professioni e quindi della stessa professione forense, sono variamente sparsi in Europa, a dimostrazione che possono convivere sistemi diversi e che l’organizzazione delle professioni non incide sulla opportunità o meno di uniformare il diritto sostanziale e il diritto processuale di ogni Paese in un unico , uniforme e compatto modello professionale . D’altra parte, al mercato interessano di più le regole che governano la circolazione dei beni e dei servizi o risolvono i conflitti piuttosto che il modo nel quale si appresta l’assistenza legale:  se il contratto è scritto da un solicitor o da un avocat, se attore o convenuto sono difesi da un barrister in parrucca o da un avvocato in toga poco importa per la funzionalità del sistema della giustizia. Se mai, e al contrario, proprio l’unificazione delle regole di diritto sostanziale – in particolare del diritto contrattuale e delle regole di diritto processuale – potrebbero essere funzionali a quell’unità dei mercati internazionali che viene assunta a ragione della libertà di circolazione dei servizi legali dall’indirizzo che si autodefinisce liberista. E qui riscontriamo una prima, enorme contraddizione: proprio l’indirizzo che vuole travolgere le caratteristiche nazionali delle professioni si oppone alle iniziative di uniformazione delle regole del diritto sostanziale e del diritto processuale. Anzi, esalta la diversità  degli ordinamenti e la competizione delle regole. Non è solo questa la contraddizione che vive l’indirizzo che si autodefinisce liberista; ve ne sono altre e ben peggiori. L’assalto  alla organizzazione delle professioni liberali mediante la critica del sistema degli  Ordini, e, correlativamente, mediante la segnalazione della inopportunità del sistema tariffario, delle limitazioni alla pubblicità e  delle altre “restrizioni concorrenziali”  si trova nelle argomentazioni di quanti fanno  uso della storia per raggiungere il loro obiettivo, cioè rimuovere tutte le  supposte sovrastrutture che si oppongono alla libera circolazione dei servizi. Certamente è documentato che gli ordini sono nati  come ordinamenti giuridici privati in risposta alle esigenze di mercato e a difesa degli interessi del gruppo di appartenenza e che successivamente sono stati inglobati nell’ordinamento generale e sussunti nella disciplina pubblicistica, attraverso la trasformazione  dei gruppi sociali in enti pubblici indipendenti e autonomi sotto la sorveglianza dello Stato. Ma proprio per questo, avendo mutato ruolo, natura e funzioni, non si può – se non  aprioristicamente  - ritenere che   sotto la veste dell’interesse pubblico essi perseguano la tutela di interessi privati.  La filosofia dell’indirizzo che si autodefinisce liberista è tutta qui: pretende di appiattire la prospettiva e i dati storici, perché dalle corporazioni medievali sono trascorsi almeno otto secoli, e la disciplina delle professioni è ora informata a valori e principi contenuti nella Costituzione, nella Carta di Nizza, nelle leggi professionali, nel codice deontologico. Questi valori sono tutti orientati a privilegiare l’interesse pubblico, ed è proprio per questo che si può parlare di responsabilità sociale del professionista, di  personalità della prestazione, di responsabilità di mezzi e non di risultato,  e così via.E’ quanto abbiamo sostenuto al Congresso di Palermo e abbiamo ribadito in ogni occasione di incontro istituzionale. La Commissione europea ha preso di mira le professioni, e in particolare l’ Avvocatura. Più volte negli ultimi anni la Commissione europea ha insistito presso il Governo italiano perché  giustificasse la compatibilità della disciplina forense con i  dettami del diritto comunitario. E il CNF  anche in questa occasione ha fatto la sua parte,   producendo autorevoli pareri, scritti difensivi, dichiarazioni portate alla conoscenza del pubblico, per spiegare   ai suoi interlocutori, nazionali e comunitari, che il sistema tariffario ha una sua logica paritaria, di trasparenza e di congruità, che la pubblicità effettuata senza limiti crea confusione e dequalificazione, che l’inquinamento di soci professionisti e soci di mero capitale implica l’esercizio di professioni rilevanti per l’interesse pubblico da parte di chi non ne avrebbe titolo. Inutile ripercorrere in questa sede tutta le iniziative che il CNF ha promosso per contestare il fondamento logico e fattuale della Comunicazione sulla concorrenza nei servizi professionali [COM (2004) 83]  e per valutare criticamente il seguito di quella Comunicazione [ COM (2005) 405]. A ben vedere, i due pilastri sui quali poggia l’indirizzo che si autodefinisce liberista – il diritto comunitario e la tutela dei consumatori – sono così fragili da dimostrare che loro  natura è astratta, ideologica, inconsistente. I fatti e i documenti parlano per noi.

 

3.      - La “posizione comune” sulla disciplina dei servizi.

 

Proprio il 17 luglio scorso la disciplina dei servizi ha ricevuto il crisma della “posizione comune” del Consiglio e del Parlamento europei. Una analisi accurata di questo testo meriterebbe molto spazio, che in questa sede non posso utilizzare. Ma , dandone una lettura funzionale all’occasione, cioè al dibattito sulla disciplina attuale delle professioni, sui progetti di riforma e sullo stato della professione forense,  se ne possono ricavare principi  significativi, utili a sostenere le nostre ragioni piuttosto che a  demolirle. Quantunque non tutte le richieste degli esponenti delle professioni siano state accolte, i risultati a cui è pervenuto l’iter formativo sono comunque apprezzabili,  se si considera che il testo distingue  tra la prestazione di “servizi” di natura professionale rispetto a quella di servizi d’impresa, che pone in evidenza le peculiarità delle singole professioni,  che sottolinea gli interessi pubblici o essenziali che le professioni tutelano. Restano in ogni caso salve, oltre alla direttiva sulle qualifiche professionali (2005/36)  le due direttive sulla libertà di stabilimento e sulla libertà di esercizio dell’attività forense già approvate dalla Comunità (77/249; 98/5), che prevalgono, per le materie che trattano, su quanto disposto dalla direttiva, in ragione della  loro specificità. Dal punto di vista dell’ Avvocatura la “posizione comune” offre inoltre interessanti spunti di riflessione. Essa fa riferimento infatti alla possibilità da parte dei legislatori nazionali di prevedere tariffe per particolari servizi. In altri termini, la conservazione o la introduzione di tariffe non è vista, nella direttiva, come una limitazione tour court alla libera circolazione dei servizi o come una barriera al mercato unico. Recita infatti il considerando  n.77 che «la valutazione della compatibilità delle tariffe obbligatorie minime e/o massime con la libertà di stabilimento riguarda soltanto le tariffe specificamente imposte dalle autorità competenti per la prestazione di determinati servizi e non, ad esempio, le norme generali in materia di determinazione dei prezzi» (come accade per  la locazione di immobili). Resta quindi lo spazio affidato alle  “autorità competenti” per stabilire quali prestazioni possono essere assoggettate a tariffe minime e/o massime. Al n.  88 si precisa che «la disposizione sulla libera prestazione di servizi non dovrebbe applicarsi nei casi in cui, in conformità del diritto comunitario, un’attività sia riservata in uno Stato membro ad una professione specifica, ad esempio qualora sia previsto l’esercizio esclusivo della consulenza giuridica da parte degli avvocati». Ebbene,   questa precisazione conferma quanto da tempo l’Avvocatura italiana va sostenendo e cioè che di per sé la riserva di attività a determinate professioni  non è in contrasto con la disciplina comunitaria – sia essa rivolta a tutelare la concorrenza sia essa rivolta a tutelare la libera prestazione o circolazione di servizi – e che proprio la consulenza legale, assunta nel considerando come esempio paradigmatico, è affidata alla libera valutazione dei legislatori nazionali. Tenendo conto delle iniziative già assunte a questo proposito da qualche Paese comunitario (come il Portogallo)  sulla disciplina antiriciclaggio e i requisiti prescritti dalla seconda e dalla terza direttiva in materia,  la precisazione del n. 88 costituisce un buon argomento da spendere presso le Autorità legislative e amministrative del nostro Paese perché riconsiderino l’idea di ridefinire ambiti e modalità di espletamento della consulenza legale.  Un’altra precisazione importante proviene dal “considerando” n. 90. «Le relazioni contrattuali – recita il testo – tra il prestatore e il cliente nonché tra il datore di lavoro e il dipendente non sono soggette alla presente direttiva. La legge applicabile alle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali del prestatore è determinata dalle norme di diritto internazionale privato». Ogni parola contenuta in questo frammento della “posizione comune” deve essere decodificata. Ed infatti, le “relazioni contrattuali”[17] non sono oggetto della direttiva e pertanto le regole concernenti il mandato professionale, il contratto d’opera intellettuale richiesto al professionista (e specificamente all’avvocato) non è assoggettato ad armonizzazione, e ciascun ordinamento statuale può disciplinarlo liberamente. Allo stesso modo, vista l’autolimitazione che la direttiva si dà, le regole della direttiva non dovrebbero invadere una sfera che, attualmente, è materia dei modelli  normativi nazionali. La seconda parte della formula sembra confermare che in caso di determinazione della legge applicabile si deve fare riferimento alle obbligazioni del prestatore, cioè, nel nostro caso, del professionista. Ebbene, se così fosse, il contratto tra l’avvocato e il cliente non solo è sottratto  alla disciplina comunitaria, ma anche per la legge applicabile si applicano i criteri di determinazione previsti per la prestazione caratteristica, che è per l’appunto quella del professionista, e nel nostro caso,  dell’avvocato. Queste osservazioni  portano ad una conclusione rilevante: le regole previste dalla direttiva non possono che riguardare il modo nel quale i soggetti a cui essa si rivolge prestano il servizio, ma non il contenuto del contratto con cui prestano il servizio. Vi è ancora un considerando che occorre evidenziare: al n. 101 la “posizione comune” stabilisce che «è necessario ed è nell’interesse dei destinatari, in particolare dei consumatori, assicurare che i prestatori abbiano la possibilità di fornire servizi multidisciplinari e che le restrizioni a questo riguardo siano limitate a quanto necessario per assicurare l’imparzialità nonché l’indipendenza e l’integrità delle professioni regolamentate. Ciò lascia impregiudicati le restrizioni o i divieti relativi all’esercizio di particolari attività intesi ad assicurare l’indipendenza nei casi in cui uno Stato membro affida ad un prestatore un particolare compito (…) e non dovrebbe incidere sull'applicazione delle norme in materia di concorrenza». Come è noto, molto si è discusso in ordine alla possibilità da parte degli avvocati di costituire società multidisciplinari: la “posizione comune” parla innanzitutto di servizi multidisciplinari, i quali possono essere offerti al cliente  da più professionisti di diverse discipline non necessariamente vincolati tra loro in modo permanente o sotto uno schermo societario; ma ciò che più colpisce è che il testo si preoccupa di salvaguardare le restrizioni o i divieti  che sono dettati per singole professioni sulla base dei valori di imparzialità, indipendenza, integrità. In altri termini, non vi sono indirizzi cogenti che impongano di spazzare via i valori sui quali si fonda la nostra professione. La “posizione comune” si sofferma a lungo sui codici di condotta. Ed anche qui si rinvengono precisazioni che investono direttamente la nostra situazione. Al n. 113 si  incoraggia la redazione di codici di condotta comunitari, sollecitazione che certamente non è rivolta all’ Avvocatura, atteso che da anni il CCBE ha predisposto un codice di condotta forense. In particolare si sottolinea la necessità di promuovere la qualità dei servizi «tenendo conto delle caratteristiche specifiche di ciascuna professione». Programma che il CNF da tempo ha messo in cantiere, predisponendo una bozza di regolamento per accreditare gli avvocati quanto all’aggiornamento professionale. Si aggiunge  ancora  che «i codici di condotta devono rispettare il diritto comunitario e in particolare il diritto della concorrenza. Essi non dovrebbero essere incompatibili con le norme di deontologia professionale giuridicamente vincolanti negli Stati membri». Ora, la deontologia professionale per gli avvocati  è prevista dalla legge fondamentale del 1933, e, in attesa di una riforma organica delle professioni, questa disciplina deve essere coordinata con la l. n. 248 del 2006. Le regole della concorrenza debbono quindi essere contemperate con quelle della deontologia professionale. Ma, come si aggiunge nel  considerando n. 115, i codici di condotta comunitari non ostano a che i legislatori nazionali prevedano regole più rigorose. Si lascia spazio ai modelli nazionali per elevare il livello etico della prestazione professionale, proprio perché si fa riferimento a ordini (e associazioni professionali). La “posizione comune” tratta con particolare riguardo le  professioni regolamentate anche in materia di pubblicità commerciale:  il considerando n.114  prevede sì la inclusione di regole nei codici di condotta ma fa salve due limitazioni con cui la libertà di utilizzare la pubblicità deve coniugarsi: la natura specifica di ogni professione e l’ esigenza di garantire l’indipendenza, l’imparzialità e il segreto professionale. In altri termini, proprio i valori che presiedono, nel codice deontologico forense,  alle limitazioni in tema di “informazione pubblicitaria”. L’articolato della “posizione comune” riprende punto per punto queste linee. Ulteriori considerazioni si possono fare però su alcune disposizioni che, tenendo conto della nuova disciplina delle professioni introdotta dalla l. n. 248 del 2006 e del codice deontologico forense, illustrano la situazione comunitaria, a cui si dovrebbe ispirare il legislatore italiano. Quanto alle informazioni da dare al cliente il testo è molto preciso. Si tratta di un modo di offrire un servizio qualitativamente accettabile, peraltro già attualmente offerto dalla categoria forense o che non implicherebbe alcun costo offrire in modo più dettagliato. Prevede infatti l’art. 22 che i prestatori di servizi devono mettere a disposizione dei clienti diversi dati, che, stante la generalità dei servizi di cui si occupa la direttiva, possono essere così selezionati per quanto riguarda direttamente gli avvocati: «a) il nome del prestatore, il suo status e forma giuridica, l’indirizzo postale al quale il prestatore è stabilito e tutti i dati necessari per entrare rapidamente in contatto e comunicare con il prestatore direttamente e, se del caso, per via elettronica; (…) d) ove il prestatore eserciti un’attività soggetta all’IVA, il numero di identificazione (…); e) per quanto riguarda le professioni regolamentate, gli ordini professionali o gli organismi affini presso i quali il prestatore è iscritto, la qualifica professionale e lo Stato membro nel quale è stata acquisita; f) le eventuali clausole e condizioni generali applicate dal prestatore; g) l'esistenza di eventuali clausole contrattuali utilizzate dal prestatore relative alla legge applicabile al contratto e/o alla giurisdizione competente; i) il prezzo del servizio, laddove esso è predefinito dal prestatore per un determinato tipo di servizio». Gli Stati membri curano che queste informazioni siano comunicate di propria iniziativa da parte del prestatore, siano facilmente accessibili al destinatario, risultino dai documenti informativi utilizzati dal prestatore. Quanto al prezzo della prestazione, non si prevede l’obbligo di esplicitarlo, a meno che esso non sia predefinito dal prestatore (e questa è ovviamente una sua scelta); nel caso non sia indicato, occorre indicare il metodo del calcolo per consentire al cliente di verificarlo, oppure fornire al cliente un preventivo. Le professioni regolamentate debbono fornire un riferimento alle regole professionali vigenti, al codice di condotta e all’Ordine di iscrizione. Inutile sottolineare che è maggiormente conforme alla direttiva un sistema tariffario piuttosto che un sistema fondato sulla libera negoziazione del compenso. Le tariffe consentono un controllo agevole e spedito sulla  formazione del prezzo e  sulla rispondenza del corrispettivo all’ oggetto e alla  qualità della prestazione fornita. La “posizione comune” non prevede  l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, ma, in caso essa sussista (in quanto obbligatoria) il professionista deve comunicarlo al cliente. L’assicurazione è uno strumento di tutela del professionista e del cliente, e per questo il CNF ne suggerisce l’adozione. Quanto alla pubblicità, cioè alle comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate, l’ art. 24 della direttiva prevede che «gli Stati membri sopprimono tutti i divieti totali» ma le comunicazioni debbono ottemperare alle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare – ad ancora una volta – «l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione». Inutile dire che il testo attuale del nostro codice deontologico, fondandosi sulla qualità, l’aggiornamento obbligatorio, l’informazione del cliente non richiede radicali innovazioni, ma alcuni adeguamenti e corrette interpretazioni. Sarebbe segno di una malintesa cognizione del diritto comunitario ritenerlo in contrasto con la disciplina vigente e con il progetto di direttiva sui servizi.

 

4.  - La tutela del consumatore.

 

L’indirizzo che si autodefinisce liberista insiste sull’esigenza di tutela dell’interesse pubblico identificato con l’interesse dei consumatori. E’ questo lo scopo enunciato dal  d.l. 4. luglio 2006, n. 223, come convertito nella l. 4 agosto 2006, n. 248. Esso reca  nel titolo una dizione riassuntiva così formulata: «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale».  All’art. 1 queste misure sono presentate, oltre che in un quadro di riferimenti costituzionali, come dettate dall’«improcrastinabile esigenza di rafforzare la libertà di scelta del cittadino consumatore e la promozione di assetti di mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio dell'economia e dell'occupazione, attraverso la liberalizzazione di attività imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro». Sempre l’art. 1 dispone che queste misure sono «adottate ai sensi degli articoli 3, 11, 41 e 117, commi primo e secondo, della Costituzione, con particolare riferimento alle materie di competenza statale della tutela della concorrenza, dell'ordinamento civile e della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». E sono «necessarie ed urgenti per garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea ed assicurare l'osservanza delle raccomandazioni e dei pareri della Commissione europea, dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle Autorità di regolazione e vigilanza di settore». L’art. 1 dovrebbe svolgere la funzione di “preambolo” e di orientamento esegetico dell’interprete, costretto ad aggirarsi tra  regole,  brandelli di regole, principi, modifiche a testi unici, e tante altre espressioni del potere normativo  riguardanti settori tra loro assai distanti, privi di una logica di coordinamento e di un quadro organico d’insieme.   L’art. 1 è  però utilizzato dai fautori del “decreto” a sostegno delle regole che hanno modificato la disciplina delle professioni, in particolare attraverso  l’art. 2. Essi effettuano così una triplice manipolazione interpretativa incarnata testualmente nelle formule della disposizione: contrappongono  gli interessi dei professionisti a quelli dei consumatori, danno l’impressione che il decreto attui regole costituzionali e quindi sia esente da mende di incostituzionalità, dànno l’impressione che il decreto  ponga  in linea l’ordinamento interno con il Trattato CEE, richiamandone alcune disposizioni,  e cercano così di dimostrare che con questo decreto l’ordinamento italiano si mette al passo con  il diritto comunitario, perché il decreto sopprimerebbe  regole obsolete  in contrasto con la disciplina comunitaria dei servizi e della concorrenza. Quanto ai richiami costituzionali, è appena il caso di segnalare che la disciplina delle professioni non è contenuta nell’art. 41 Cost.,ma, trattandosi di lavoro autonomo, è contenuta negli artt. 35 ss. Allo stesso modo,gli artt. 43, 49,81,82,86 del Trattato CEE  riguardano servizi e concorrenza, ma queste disposizioni debbono essere rilette alla luce della Carta di Nizza e del Trattato costituzionale. Ma quali sarebbero i vantaggi dei consumatori in questo settore? I vantaggi sono enunciati con tono perentorio da un documento che accompagna , a mo’  di commento, il lettore  nell’interpretazione del testo, un documento di cui si fanno scudo i fautori del decreto[18]. L’abolizione della obbligatorietà delle tariffe è presentata con queste parole: «Per i servizi professionali arrivano parcelle ‘negoziabili’ tra le parti e legate al risultato della prestazione. Con una norma del decreto legge si abrogano le disposizioni normative e regolamentari che prevedono l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime e il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. In seguito alle modifiche introdotte dal Parlamento si è precisato che il compenso professionale degli avvocati negoziato con gli utenti deve essere espresso in un accordo scritto».  Precisiamo, innanzitutto, che le tariffe continuano a costituire il parametro di riferimento per il giudice nella liquidazione del compenso dell’avvocato nei casi indicati dallo stesso art. 2, secondo comma. I compensi parametrati ai risultati ottenuti erano oggetto di possibili negoziazioni tra avvocato e cliente, sempre che non portassero al “patto di quota lite” o ad una sproporzionata retribuzione dell’avvocato. Il decreto riscrive l’art. 2233 cod.civ. e sembra ammettere il patto di quota lite, se concluso in forma scritta. Ma sottrarre al cliente una percentuale dei risultati della controversia significa tutelarlo? Appropriarsi dei diritti del cliente è lecito, eticamente e giuridicamente?  E’ questa una  equazione  ragionevole?  Negoziare la qualità della prestazione è un obiettivo che  reca vantaggi al consumatore? Il decreto vorrebbe promettere  (secondo i suoi fautori) la «riduzione delle parcelle» e  una «maggiore efficienza nelle prestazioni offerte». Anche qui c’è una equazione che non torna: se il compenso è negoziato, e non si applicano le tariffe – che pure rendono paritetico e trasparente il rapporto economico  dell’avvocato  con il cliente – il cliente sarà automaticamente in una posizione di forza contrattuale tale da riuscire ad ottenere una riduzione del dovuto? E la maggiore efficienza nelle prestazioni si dovrà alla negoziazione?  Per effetto della nuova normativa  – si legge sempre nel documento  dei fautori del decreto - <I liberi professionisti possono far conoscere agli utenti i servizi offerti attraverso la pubblicità informativa.  Ora, ad esempio, anche sulle riviste informative di pubblica utilità si può ‘selezionare’ il professionista più adatto e conveniente alle proprie esigenze .Con una norma del decreto legge si abroga il divieto di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e il prezzo delle prestazioni>.  Per quanto riguarda i servizi legali, già ora  il codice deontologico consente l’informazione sui titoli acquisiti effettivamente ( e non su quelli inventati dal professionista) ; ma quali prezzi potranno essere esibiti?  Ogni questione ha una storia a sé, profili giuridici specifici  da studiare e approfondire, ogni difesa ha la sua logica e i suoi tempi, e l’avvocato non può predire il futuro perché – a differenza degli altri professionisti – il risultato della sua attività è mediato dal giudice.  Allora si tutelano davvero i consumatori perché ora essi si possono affidare a messaggi pubblicitari (di cui conosciamo tutti la dubbia  affidabilità) per  scegliere  il proprio difensore? La risposta che  ci danno i fautori del decreto appare un po’ ingenua, se non mistificante: «L’utente avrà maggiori informazioni a sua disposizione e quindi più possibilità di comparazione e di scelta» (come se la soluzione di un problema giuridico potesse porsi sullo stesso piano di un servizio informatico, di trasporto o di telefonia).  E si aggiunge: «Il consumatore avrà anche più capacità [sic !] contrattuale». Il consumatore maggiorenne non interdetto ha certamente “capacità contrattuale”. Forse, qui si voleva dire “potere” contrattuale, inteso in senso economico-sociologico. Ma, come sopra si è osservato, solo le grandi società, le banche, le assicurazioni, hanno un potere contrattuale che può prevalere su quello del singolo avvocato. Proprio per questo il codice civile proibisce il patto di quota lite, e il codice deontologico  ancora oggi sanziona l’avvocato che profitta dell’ ignoranza del cliente. I vantaggi che si vorrebbero assicurare al consumatore , sul lato delle professioni, non finiscono qui. Si dice ancora: «L’utente potrà rivolgersi a società multidisciplinari (formate da architetti, avvocati, notai, commercialisti ecc…) Con una norma del decreto legge si abroga il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità». Ma non si dice che il divieto aveva la funzione di prevenire i conflitti d’interesse, di assicurare all’avvocato ( e quindi al cliente) l’indipendenza da partners che potrebbero preferire il perseguimento dell’interesse della società rispetto a quello del cliente, la possibilità da parte dell’avvocato di scegliere – nell’interesse del cliente – il professionista di altra materia che di volta in volta riteneva più appropriato. Ora, sollecitando i professionisti ad associarsi anche in “società multidisciplinari” tutti questi vantaggi  andranno persi, certamente in danno del cliente. E poi non è detto che la rimozione del divieto si traduca in una rincorsa alle associazioni …Del tutto  non consequenziale rispetto al significato oggettivo del provvedimento è poi la considerazione secondo la quale «Si apre la possibilità di creare studi italiani più competitivi a livello internazionale», come se già oggi non vi fossero studi di questo livello o come se vi fossero divieti a costituirli, o come se non si sapesse che gli studi internazionali che operano in Italia si avvalgono di avvocati italiani. Gli avvocati italiani che volessero espandersi all’estero sono  ostacolati da fattori oggettivi: dalla lingua italiana, che gli stranieri non conoscono,  dal diritto italiano, che gli stranieri non apprezzano,  perché scritto in una lingua che non comprendono,  dall’ambiente in cui operano, perché il Paese, il sistema-giustizia, il  sistema politico  che  abbiamo sono  a torto o a ragione oggetto di critica[19]. Non sono certo  questi i “vantaggi” che si meritavano i consumatori. Non è certo introducendo misure che favoriscono l’accaparramento di clientela e l’offerta di prestazioni professionali sottocosto che si tutelano i diritti dei consumatori. Non sono certo questi i diritti per l’affermazione  dei quali abbiamo combattuto come giuristi e come difensori,  i diritti sui  quali abbiamo costruito un sistema di informazione, di protezione e di tutela giudiziale, uno status che abbiamo teorizzato , accreditato e codificato. Né ci saremmo aspettati che – mettendosi il berretto frigio – il legislatore avrebbe riconosciuto un “cittadino-consumatore” e disconosciuto il “cittadino-professionista”!  Non mi soffermerò sui profili di incostituzionalità della disciplina attuale, perché essi sono stati ampiamente e   persuasivamente declinati nelle opinioni che autorevoli studiosi della materia hanno  espresso , senza avere registrato confutazioni o critiche.  

 

5.  - I principi-quadro in materia di professioni.

Vorrei invece ricollegarmi al testo con cui si era chiusa la XIV legislatura – il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 –  con cui si  sono  dettati i principi- quadro in materia di professioni, diretti a delimitare i confini della legislazione concorrente tra Stato e Regioni in questo ambito. Il decreto riconosce l’esercizio della professione quale «espressione del principio di libertà di iniziativa economica», da svolgere sì in conformità alla disciplina statale della concorrenza,  ma tenendo conto delle «deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti», e della «riserva di attività professionale, delle tariffe  e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale». Il decreto precisa che «la regolazione delle attività professionali si svolge nel rispetto dei principi di buona fede, dell’affidamento del pubblico e della clientela, della correttezza, della tutela degli interessi  pubblici, dell’ampliamento e della specializzazione dell’offerta dei servizi, dell’autonomia e responsabilità del professionista». Il decreto si conclude con una norma di rinvio, che fa salvi i principi «riguardanti  specificamente le singole professioni». È questo il quadro di principi da cui si deve partire, considerando che l’esercizio delle professioni liberali è oggetto di lavoro autonomo.  Più volte abbiamo insistito sulla tutela costituzionale dell’Avvocatura, sul riconoscimento che alle libere professioni, distinte dall’attività d’impresa, è dato nella Carta di Nizza, che enuncia i principi costituzionali sui quali si regge l’Unione europea, in ogni occasione abbiamo rivendicato la specificità della professione forense, che non può essere né appiattita né sconvolta da interventi legislativi erratici, sommari, asistematici e punitivi. “Scrostare” la disciplina delle professioni significa non tanto rimuovere privilegi e immunità corporative ma al contrario porsi in contrasto con i valori dell’ Unione europea e con le linee direttrici dei principi costituzionali del nostro Paese.

6.  - I progetti di riforma della disciplina delle  professioni.

La riforma della disciplina delle professioni – sulla quale ha dovuto concentrarsi la seconda sessione del nostro Congresso, come si dirà in modo compiuto e dettagliato anche nello spazio riservato all’intervento del Consiglio Nazionale Forense – non può che articolarsi su di un duplice livello: inquadrati i principi del diritto comunitario, rettamente inteso, e i principi costituzionali, riservata allo Stato la potestà legislativa in materia, salvi i poteri di sostegno finanziario che le Regioni sono titolate ad esercitare – i principi generali debbono lasciare spazio alle peculiarità delle singole professioni. L’Avvocatura, come si è tante volte ripetuto e come ha statuito la Corte costituzionale, ha una funzione essenziale irrinunciabile, indefettibile, insopprimibile. Dal punto di vista della tecnica legislativa, un sistema normativo così complesso non può che affidarsi ad una legge di delega, a cui seguano singoli decreti delegati che tengano conto delle specificità professionali. Le professioni liberali “regolamentate” trovano negli Ordini la loro essenza: è questo un connotato che si riscontra  in ogni modello normativo europeo; anche in Inghilterra i barristers debbono essere iscritti al Bar Council, e i solicitors sono ascritti alla Law Society. Ampliare il numero degli Ordini o costituire “associazioni professionali” è una scelta, politica e di opportunità, che non si può considerare dirimente. Gli Ordini non possono essere soppressi, le associazioni possono essere istituite liberamente.Ma non possiamo neppure accettare che gli Ordini siano conservati ma “svuotati di fatto” delle loro funzioni.  Almeno  quattro limiti mi sembrano necessari perché il sistema possa reggere su salde fondamenta. Il primo limite è dato da una scelta di campo: se non si intende istituire nuovi ordini,   le associazioni professionali siano riservate alle nuove professioni.  Appare evidente che il sistema duale non può prevedere modelli normativi identici, altrimenti vi saranno due fattispecie normative riguardanti il medesimo oggetto. Questo non significa ovviamente che alle professioni nuove o emergenti non si voglia riconoscere dignità e utilità; anzi, la istituzione delle associazioni professionali darà maggiori garanzie di controllo e qualità dell’attività professionale.  Come emergeva già dai primi progetti degli anni Novanta, le associazioni professionali dovrebbero  conservare la loro natura privatistica. In ogni caso, se ad esse si volesse riconoscere natura pubblicistica, l’iscrizione obbligatoria del professionista non potrebbe che comportare la scelta di uno, ed uno soltanto, degli organismi  istituzionali, salve le eccezioni già ora consentite. Il secondo limite è dato dalla necessità di distinguere e di non sovrapporre gli ambiti dell’esercizio professionale. Ogni Ordine ed ogni associazione debbono mantenersi entro i confini tipici della professione tutelata, con la salvaguardia delle riserve dettate dall’interesse pubblico. Il terzo limite è dato dalla impossibilità di scelta della iscrizione ad una associazione professionale da parte di chi, per il tipo di titolo acquisito, è tenuto, se vuole svolgere la sua professione, ad iscriversi ad un Ordine . Si è di recente sostenuto che < il principio di liberalizzazione (…) dovrebbe riguardare  la possibilità per una persona in possesso dei requisiti formativi e di abilitazione relativi a determinati ambiti di conoscenze professionali (…) di iscriversi liberamente a un organismo ordinistico fra quelli definiti per legge come in grado di qualificare le sue competenze e il suo sviluppo professionale>[20]. Per quanto riguarda l’avvocato, la sua iscrizione all’ Albo e la sua soggezione all’ Ordine sono garanzie di tutela dell’interesse pubblico, attesa la rilevanza costituzionale e sociale della sua professione. L’ avvocato che non si iscrive all’ Albo o si cancella dall’ Albo, per iscriversi ad una associazione professionale diversa svolge una professione diversa. E se mantiene il suo titolo  si espone, dall’esterno, al rischio che il cliente che si rivolgesse  a questo professionista o allo studio costituito con professionisti  iscritti ad altre associazioni , avrebbe l’aspettativa di trovare un difensore dei propri diritti,  non potendo invece fruirne, perché solo chi è abilitato con il suo titolo a patrocinare dinanzi alle Corti può dare queste garanzie e questo tipo di “servizio”.  Ma non è solo l’affidamento pubblico che ne verrebbe a soffrire. Gli Ordini, non soppressi, ma svuotati a beneficio delle associazioni, finirebbero per avere un ruolo marginale, in un sistema che invece ne postula l’esistenza, l’efficienza, l’autorevolezza. L’avvocato che si cancella dall’ Albo si sottrae alla disciplina deontologica forense, si sottrae agli obblighi contributivi,  si “mescola” con altri professionisti perdendo la sua identità tipica. Il quarto limite è dato dal fatto che – salvo l’intervento dell’ Autorità giudiziaria e le competenze del Ministero della Giustizia  - gli Ordini sono enti pubblici non economici a cui la costante interpretazione costituzionale ha conservato autonomia e competenze di ambito nazionale[21]. Nessuna autorità, all’infuori dell’ A.G.O.  e del Ministro della Giustizia, possono interferire nell’esistenza e nella vita dell’ Ordine.

7.  - Qualità e “riserve” nel c.d. sistema duale.

Puntare sulla qualità, sulla formazione continua, sulla certificazione, sull’applicazione dei codici deontologici  sono tutti obiettivi che l’ Avvocatura si è data e sta mettendo in pratica, persuasa che sia questa la via più efficace, anche se impegnativa e meno “mediatica”, per tutelare la collettività: sia i consumatori, che possono beneficiare così di una prestazione di qualità, competente e aggiornata, sia i professionisti stessi, che sono incentivati ad aggiornare e affinare le proprie competenze per garantire standards professionali sempre più elevati. Migliorare la preparazione culturale e pratica già nell’ambito della formazione universitaria, nell’ambito del tirocinio e delle Scuole professionali,  imporre l’ aggiornamento continuo, l’assicurazione della responsabilità civile, migliorare il procedimento disciplinare, dissociare la fase istruttoria da quella giudicante, eventualmente collocandola a livello distrettuale,  riformare il regime delle impugnazioni, istituire un sistema di crediti e curare il rilascio di diplomi di specializzazione, curare corsi formativi, di aggiornamento, di ausilio a tutti gli avvocati e ai tutors delle Scuole è stata ed è la preoccupazione costante del CNF, che ha svolto queste i iniziative sia direttamente, sia attraverso il suo Centro di formazione, sia attraverso la Fondazione dell’Avvocatura e, nell’immediato  futuro, anche mediante la Scuola Superiore dell’ Avvocatura. Vorrei però insistere, e rendere ancora più esplicito il discorso sul c.d. sistema duale e sui pericoli che si annidano in proposte, peraltro precedentemente mai affacciatesi all’orizzonte, che potrebbero sconvolgere il sistema delle professioni. Nel nostro Paese, le difficoltà di procedere ad una riforma delle professioni hanno di fatto impedito, negli ultimi decenni, al sistema professionale “ordinistico” di accompagnare pienamente lo sviluppo delle tecnologie, delle conoscenze, delle emergenti professionalità. Decine di disegni di legge di riconoscimento di professioni hanno intasato nelle ultime legislature i lavori parlamentari, di fatto senza alcun esito. Di qui il nascere e l’affermarsi di forme alternative di “organizzazione professionale”, quali le libere associazioni, che hanno riempito tale vuoto e si propongono oggi come soggetto autonomo nel dibattito tecnico-politico sulla riforma delle libere professioni. A tale proposito, è innegabile che in settori totalmente privi di rappresentanza professionale)  le associazioni rappresentano un prezioso strumento di “gestione e controllo” dell’intero comparto. Ma è anche innegabile che, in comparti dove esistono professioni regolamentate, tali associazioni hanno ben altre caratteristiche e ben altre finalità.  Infatti,  il legislatore riconosce un settore professionale come meritevole di tutela - tanto da istituire specifici Ordini professionali – quando: si è in presenza di  una grave asimmetria informativa (difficoltà o impossibilità da parte  del cittadino nel giudicare caratteristiche, qualità e garanzie di una specifica prestazione) si possono verificare danni gravi ed irreversibili a carico della collettività in caso  di prestazione non adeguata agli standards professionali. In questi casi la legge ha istituito specifici enti pubblici associativi a garanzia del cittadino (gli Ordini professionali) demandando loro il compito di accertare le capacità tecnico professionali degli iscritti, di vigilare sul modo in cui si rapportano con il cliente, di curarne la formazione e l’aggiornamento. Corollario di tale disciplina legislativa non è – (evidentemente) tranne alcune eccezioni, come il patrocinio legale per gli avvocati – il divieto di esercitare la professione  da parte di soggetti non iscritti negli Ordini, quanto il fatto che  il  cittadino che si rivolge ad un professionista per certe prestazioni possa contare  su queste garanzie e su questi controlli. Corollario dell’Ordine non è di per se l’esclusiva, bensì il plusvalore rappresentato dal fatto che quella prestazione possa essere svolta da un soggetto che spende un titolo professionale e che è soggetto ad una deontologia, ad un procedimento disciplinare, ad una vigilanza pubblica sul proprio operato, in quanto membro di un ordinamento sezionale dotato dei crismi della giuridicità (dove si rinvengono plurisoggettività, normazione, autorità). Posto il pieno rispetto per la libertà di associazione (art. 18 Cost.), nulla vieta  che si affermi – come qualcuno fa sempre più spesso - la legittimità di forme associative alternative agli Ordini anche se non soprattutto in settori in cui la legge prevede la presenza di uno o più Ordini professionali. Il punto non è quello di consentire o meno tale associazioni, senz’altro legittime sotto il profilo giuridico. E nulla vieta che queste associazioni rilascino attestati circa il fatto di essere iscritto, o di avere seguito dei corsi. Il punto è il riconoscimento pubblico delle associazioni, come presupposto di una valenza in qualche modo generale (pubblica, appunto) di tali attestati. La vera posta in gioco è la possibilità per tali associazioni di reclamare per sé uno status “più che privato”, che conferisca loro una veste pseudopubblica che dia valore agli attestati rilasciati. La vera posta in gioco è la “fede pubblica”. Ciò che occorre proteggere è l’affidamento del cittadino-utente: la clientela non particolarmente informata può non distinguere tra un iscritto ad un ordine, che ha sostenuto un esame di Stato, ed è membro di un ordinamento sezionale che lo assoggetta ad un codice deontologico, ad un procedimento disciplinare attivabile anche dal pubblico ministero, ad un obbligo di aggiornamento e formazione, ed un iscritto ad “un’associazione professionale”, che nulla di tutto ciò comporta. Il legislatore non può non sapere che il riconoscimento pubblico che tali associazioni reclamano è strumentale al rilascio di attestati dotati di un quid pluris rispetto a qualsiasi attestato che una libera associazione privata può rilasciare, per di più senza i costi della vigilanza ministeriale.  È evidente che in questi casi l’errore è dato da una eccessiva generalizzazione. Invece di postulare un eventuale riconoscimento (secondo criteri molto seri e procedure controllate) di associazioni di soggetti che esercitano attività professionali o paraprofessionali non comprese in settori già regolamentati, si chiede di riconoscere “tout-court” associazioni che sono spesso lo sbocco di quanti, per motivi diversi, non sono riusciti ad entrare in un Albo professionale e ciò nonostante pretendono di esercitare al di fuori di questo le stesse attività e le stesse funzioni, motivando tale richiesta con presunte “regole di mercato”. Pertanto se da un lato non si può negare che gli Ordini professionali necessitino di una riforma) non può essere consentito a soggetti privi della necessaria professionalità (per definizione e loro stessa ammissione, dato che non riescono ad essere ammessi nell’Ordine professionale corrispondente)  di esercitare attività in settori ed in materie per le quali l’ordinamento ha previsto regole e requisiti specifici. E per legge non si intende solo le diverse leggi ordinistiche, ma la stessa Costituzione, che all’articolo 33 prevede l’obbligo del superamento di un esame di stato per esercitare attività professionali. Per tali motivi, appare da un lato necessario che il legislatore presti attenzione alle problematiche delle cosiddette “associazioni non riconosciute”, dall’altro è indispensabile evitare fughe in avanti e soluzioni parziali, magari sotto la spinta di presunte esigenze di mercato. Su questo versante, dunque, vi è l’assoluta necessità che l’eventuale riconoscimento delle associazioni delle “nuove professioni” riguardi appunto attività nuove, e non spezzoni di attività già proprie di professionisti iscritti in albi, senza sovrapposizioni che non potrebbero che danneggiare la trasparenza del mercato. I tentativi di ottenere questo improprio riconoscimento sono stati numerosi. L’ultimo è di poco più di un anno fa: con il decreto competitività (d.l. n. 35/2005), approvato definitivamente nel maggio del 2005: l’emendamento  approvato nottetempo dalla Commissione Bilancio del Senato, ha cancellato le parole “regolamentate e tipiche” dalla formulazione originaria, sostituendole con la parola “riservate”, accompagnato da una sorta di “pentimento in extremis”, e cioè da un Ordine del giorno, assolutamente insufficiente, che impegnava il Governo a mantenere, durante la discussione in Aula, la parola “regolamentate” nel testo dell’art. 2, comma 8 del decreto legge, così come emendato dalla Commissione bilancio del Senato. Non è evidentemente sufficiente la menzione delle attività riservate, anzi questa è probabilmente superflua, ove si consideri che è del tutto ovvio che non possano riconoscersi associazioni relative ad attività professionali riservate ad iscritti in albi. A fronte di queste argomentazioni il maxiemendamento fu ritirato, con lo stralcio del comma 8 dell’art. 2 del decreto legge n. 35/2005. È insomma necessario che una corretta distinzione tra ordini e associazioni contempli criteri che consentano il riconoscimento di associazioni relative ad attività che non sono “caratterizzanti”, “tipiche” o meglio qualificanti di professioni già regolamentate dalla legge. Potranno dunque riconoscersi solo associazioni di soggetti che svolgono altre e diverse attività, non sovrapponibili a quelle degli iscritti agli Ordini. Insomma, si impone l’esigenza di una netta distinzione tra le due anime del sistema professionale, proprio a tutela dell’affidamento della clientela, che è il fondamentale interesse pubblico di rango costituzionale sotteso alla disciplina delle professioni, come anche di recente, con la sentenza 405/2005 la Corte costituzionale ha ribadito. Il “cittadino cliente” ha diritto ad un mercato professionale trasparente e chiaro. Associazioni “parapubbliche” non possono che danneggiare questo diritto, se insistono su ambiti di attività già propri degli iscritti negli albi. [22] L’alternativa è ampliare l’area  delle riserve, a cominciare dalla consulenza legale , per la quale l’ Avvocatura in molte occasioni, e da ultimo al XXVII Congresso nazionale , ha proposto l’introduzione di una disciplina appropriata,  che sia diretta alla prevenzione delle liti e ne assicuri un qualificato espletamento.  

8.  - Per una  riforma urgente dell’ ordinamento forense.

Ma tutto ciò non basta. L’Avvocatura ha bisogno di un intervento urgente che riformi l’esame di abilitazione, che consenta agli Ordini di verificare l’effettivo esercizio della professione da parte degli iscritti, che riformi il procedimento disciplinare, che introduca forme e modi di aggregazione degli avvocati senza intaccare il  principio di autonomia e indipendenza. Non dunque l’ingresso a soci di capitale, non subordinazione con contratto di lavoro dipendente dell’avvocato ad altro avvocato, non commistioni con altre professioni, se non quelle consentite dalla interdisciplinarietà compatibile con la professione forense. Nella giornata di domani, secondo la scansione dei temi congressuali che è stata decisa all’unanimità da tutte le componenti dell’ Avvocatura, il CNF discuterà le linee fondamentali della riforma urgente che l’ Avvocatura attende ormai da anni.[23] Le due linee di riforma – il quadro generale delle professioni, le regole speciali dell’ Avvocatura – possono coordinarsi senza allungare i tempi. D’altra parte, lo si è già fatto: in via generale, per il riordino del sistema elettorale e la composizione degli organi di ordini professionali con il d.p.r. 8.7.2005,n.169, da cui sono stati esclusi tuttavia gli Ordini forensi; in via particolare,  per due categorie professionali di grande rilievo: i commercialisti e i ragionieri, con la l. 24.2.2005, n. 34; i notai, con la l. 24.2.2005, n. 34, il d.lgs. 1.8.206, n. 249 e la l. 24.4.2006, n. 166.

9. - Il ruolo dei giovani e le prospettive dell’Avvocatura.

Quando si parla dei giovani – studenti, praticanti, avvocati – sorge innanzitutto il problema della legittimazione a trattare l’argomento e a  prospettare  regole che potrebbero incidere sul loro futuro da parte di chi ormai ha una carriera e un tratto di vita alle spalle. E’ evidente che  il futuro dei giovani si deve costruire insieme con loro ed è altrettanto evidente che non vi possono essere conflitti d’interesse, perché chi si trova a  poter proporre iniziative e progetti o addirittura a dover decidere su  di  loro non può che esprimersi per  loro, cioè a loro favore.  Anche quest’anno già i primi dati raccolti dagli esami di orientamento per l’iscrizione alle Università indicano che la Facoltà di Giurisprudenza costituisce ancora uno dei percorsi formativi più ambiti,  nonostante la connessione tra il titolo conseguito e gli sbocchi lavorativi restino incerti e assolutamente insoddisfacenti. Il modello di corso di laurea magistrale  (1+4) che sottolinea la professionalità e quindi si pone come lo strumento ideale per avviarsi alle professioni legali è parso al CNF ancora debole, nella convinzione  che solo se si consente agli studenti di acquisire una formazione qualitativa di eccellenza curvata sulle esigenze delle professioni legali già negli anni universitari è possibile procedere ad una selezione accurata e non casuale degli aspiranti all’esercizio dell’ Avvocatura. La qualità fa premio anche nell’accesso alle Scuole, e nel periodo del tirocinio, che deve essere effettivamente formativo e non solo un mezzo di lavoro ancillare  o di parcheggio in attesa di migliori occupazioni. Sì che accanto alla formazione teorica e pratica occorre una gratificazione economica proporzionata all’attività  effettivamente svolta e al contributo offerto. Occorre ripensare ai sussidi economici per le categorie meno abbienti, perché, al di là delle tradizioni familiari sulle quali si è costruita  gran parte dell’esperienza forense  che costituisce il vanto della nostra professione, la trasmissione del sapere possa raggiungere ancor più facilmente  chi, essendo meritevole, si trova a disagio per la difficoltà di  uscire dal suo milieu sociale o di fare ingresso in uno studio professionale. Borse di studio, mutui agevolati, stages, e ogni altro modo per garantire pari opportunità  costituiscono oggi proposte che il CNF  promuove con convinzione. Nel marzo scorso abbiamo organizzato il primo congresso di aggiornamento forense, a cui si sono iscritti gratuitamente più di 1.400 avvocati. In luglio abbiamo varato, primo ordine in Europa, un corso a Londra per gli Avvocati italiani,  di inglese giuridico e di diritto contrattuale e bancario. E’ stato seguito, con entusiastici risultati, da 130  giovani avvocati provenienti da tutti distretti , ed ha consentito a loro  non solo di apprendere nozioni e tecniche,  ma anche di capire un diverso sistema e di avviare utili contatti con gli studi locali. Ben diverso è il discorso sull’accesso alla pubblicità diversa da quella informativa: le risorse economiche dei giovani e destinate ai giovani  debbono essere indirizzate alla formazione e qualificazione professionale, alla organizzazione degli studi, della biblioteca e degli altri mezzi di informazione, alla rete informatica, piuttosto che non essere disperse nei tentativi di accaparramento di clientela.

10.  - L’allineamento degli Avvocati italiani alle professioni forensi degli altri Paesi d’ Europa.

 

Un  leit motiv  usato frequentemente ad colorandum per giustificare la c.d. liberalizzazione della professione forense è che il sistema esistente fino alla introduzione della l. n. 248 del 2006 impedirebbe agli studi italiani di conquistare quote sul mercato professionale estero e invece agli studi stranieri di stabilirsi agevolmente in Italia conquistando larghe fasce di mercato. Tante volte si è cercato di chiarire il problema, ma la disattenzione, l’inconsapevolezza o forse l’intenzionale  sordità  impediscono alle argomentazioni razionali di fare breccia in questo muro di ostinata opacità. Gli studi stranieri che preoccupano molti sono tali solo per la sede principale, ma sono composti da avvocati italiani, che hanno una formazione e un curriculum che consente loro di seguire affari internazionali, sofisticate operazioni societarie o finanziarie. Vi sono molti modi, come sopra dicevo, di esercitare la professione. La nostra è una professione diffusa, e quindi è impensabile ridurre i 180.000 avvocati italiani a 180 studi di 1000  avvocati ciascuno,  oppure a 1800 studi di 100 avvocati ciascuno. Le aggregazioni possono avvenire in via verticale, secondo la  dislocazione geografica, in via orizzontale a seconda dei diversi settori di competenza,  anche temporaneamente, per partecipare a gare promosse da grandi società, Ministeri, altre istituzioni. Ma la realtà italiana è costituita dall’ Avvocatura che si occupa della fascia media e piccola delle questioni, che coniuga l’attività giudiziale con quella stragiudiziale, e rifiuta quindi la distinzione tra “avvocati d’affari” e “avvocati di toga”,  e pure la parcellizzazione delle competenze.  Quando si parla di “responsabilità sociale” dell’avvocato e della rilevanza degli Ordini di piccole dimensioni si vuol alludere anche a questo: al ruolo che l’avvocato, diffuso capillarmente su tutto il territorio svolge a vantaggio della collettività, con il suo consiglio, con la difesa dei diritti, con la costruzione ed elaborazione di operazioni economiche. E’ impensabile riprodurre il modello dei grandi studi professionali a tutti i livelli della professione forense e in ogni ubicazione geografica. Ma è anche impensabile dividere formalmente gli avvocati in due categorie, a seconda della loro appartenenza a “grandi studi” o a realtà professionali di più modeste dimensioni e far dipendere  dalla loro affiliazione all’una o all’altra categoria  le regole giuridiche e di etica che gli avvocati – in quanto tali – debbono osservare. Non vi può essere uno statuto della pubblicità informativa a maglie larghe per i primi e uno a maglie strette per i secondi, una regola allentata per i conflitti d’interesse  destinata ai primi e regole più rigorose destinate ai  secondi. Questo è non, come qualcuno ha voluto scrivere, il riflesso di una concezione “medievale e corporativa” della professione, ma piuttosto una conseguenza logica della applicazione – seria – di regole eticamente apprezzabili.  Quanto poi all’acquisizione di  porzioni di mercati esteri, ciò spetta alla capacità, all’inventiva, all’esperienza , a tanti fattori imponderabili che non si possono certo semplicisticamente riferire alla mancata liberalizzazione o al ritardo nella liberalizzazione dei servizi professionali nel nostro Paese. Tutti sanno che Londra è la piazza finanziaria più rilevante del mondo, che a Londra si compiono le operazioni finanziarie più grosse, complesse, sofisticate, che modelli contrattuali, tecniche comportamentali etc. sono il complesso di un’esperienza di cui  gli studi inglesi sono portatori , ma soprattutto, che il modello giuridico di common law  , per ragioni varie che non è il caso di ribadire in questa sede, è uno dei modelli vincenti nel mondo intero e che il modello giuridico italiano per ragioni di lingua, di complessità, di lentezza nella amministrazione della giustizia , e per l’inaffidabilità e debolezza politica del nostro Paese (così come viene rappresentato all’estero) è un modello debole, anzi, recessivo. Per queste ragioni il CNF, ormai da molti anni, come risulta dalle sue pubblicazioni e dalle innumerevoli iniziative promosse, diffonde la conoscenza e la pratica del diritto comparato, del diritto comunitario, del diritto privato europeo. Si batte per un “codice civile europeo”, consapevole che nella competizione degli ordinamenti quello italiano è cedevole, per non dire soccombente, mentre, in un codice civile in cui tutti gli avvocati d’Europa possono condensare la loro cultura e la loro esperienza, gli avvocati italiani aumentano notevolmente le loro chances, possono far valere la loro abilità , lottando ad armi pari. Se si dovesse dare prove di questi assunti, basterebbe considerare il credito goduto dai nostri Colleghi che curano il diritto  comunitario e il diritto internazionale, pubblico, privato e processuale: essi certamente non sono penalizzati dalla loro nazionalità per mietere i successi che mietono dinanzi alla Corte del Lussemburgo e alla Corte di Strasburgo. E si pensi all’arbitrato internazionale,  agli arbitrati istituzionali in cui le Istituzioni arbitrali scelgono arbitri italiani senza discriminazioni dovute alla nazionalità. Insomma, quando l’avvocato italiano è in grado di lottare ad armi pari, non gli fa certo velo la sua nazionalità.  D’altra parte, tutti gli avvocati italiani sono orami  tenuti a conoscere le basi  e a cooperare per la  realizzazione integrale dello spazio giudiziario europeo[24], oltre che per la creazione di un diritto sostanziale civile, penale e amministrativo di livello e con contenuti “europei”.  

 

11.  -La partecipazione degli Avvocati italiani all’edificazione dell’ Avvocatura europea.

Distratti dalle diatribe interne e dalle innovazioni legislative inattese  abbiamo cercato di non perdere la possibilità di seguire compiutamente ciò che si agita in ambito europeo . I temi sul tappeto sono molti e assai ilevanti:  non solo la disciplina della concorrenza e dei servizi, non solo la disciplina antiriciclaggio, la deontologia, il training, l’accesso alle giurisdizioni superiori, l’assicurazione,  i giuristi d’impresa, ma anche il diritto  processuale, il diritto contrattuale, il diritto penale,  la responsabilità sociale delle imprese, l’informazione tecnologica, l’assistenza giudiziaria dei meno abbienti, i diritti umani, il diritto societario, il diritto di famiglia,  le politiche dell’ Avvocatura nei Paesi dell’ Europa Centrale e dell’ Est[25]. E sono sempre più incalzanti i problemi della globalizzazione dei mercati e dell’apertura dei mercati d’Oriente. Il modello di codice civile italiano è stato utilizzato, insieme con gli altri principali modelli di civil e common law,  in Cina per la redazione del nuovo codice civile. Così non è stato per la redazione dei codici civili degli ex-Paesi socialisti, perché i giuristi italiani  non hanno avuto quel supporto istituzionale e politico che gli avvocati  americani e inglesi, francesi e tedeschi, e persino olandesi, in collaborazione con studi professionali , imprenditori  e investitori   hanno ricevuto per poter esportare insieme con le regole anche la loro esperienza e competenza professionale. Anche questo è uno scenario che si apre , una prospettiva da cogliere con intelligenza e intraprendenza. Ma tutte queste occasioni, fino ad ora mancate, ma in parte recuperabili, richiedono una strategia comune , interna e compartecipata con l’imprenditoria e con gli enti privati e pubblici, con le iniziative diplomatiche e con le strategie economiche complessive del Paese.  Per fare tutto ciò dobbiamo partire da una base solida e operare in un clima disteso. Il nostro lavoro richiede serenità ed attenzione, ora messe a repentaglio dalla conflittualità che deve essere ricomposta al più presto con la collaborazione di tutti. Il nostro passato è stato fulgido, il nostro futuro  non può essere  incerto: non ne soffrirebbe solo la nostra categoria, ne sarebbe vulnerata l’intera collettività.



[1] Alpa, Relazione di apertura del XXVIII Congresso nazionale forense: «Amministrare la Giustizia: gli Avvocati per governare il cambiamento», in Rass.forense, 2006, I,1.

[2] Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1585 (alla voce «Avvocati»), rist. Olschki,Firenze, 1996.

[3] “Fabbrica del programma”, p. 53.

[4] Luzzati, La politica della legalità.Il ruolo del giurista nell’età contemporanea, Bologna, 2005;  Hazard e Dondi, Etiche della professione legale, Bologna, 2005; Malinvaud, Introduction à l’étude du droit, Parigi, 2006, p. 378 ss.; Cranston, How Law Works.The Machinery and Impact of Civil Justice, Oxford, 2006; Zuckerman (ed.), Civil Justice in Crisis:  Comparative  Perspectives of Civil Procedure, N.Y., 1999.

[5] Sul punto v. Colavitti, Segreto professionale e diritto di difesa , tra  obblighi “antiriciclaggio” e tradizioni costituzionali (note in margine al giudizio promosso dinanzi alla Corte di Giustizia  dalla Cour d’Arbitrage belga, relativamente alla direttiva 2001/97/CE, in Rass.forense, 2006,I, p. 127 ss.

[6] The Law Society, Draft Legal Services Bill-Joint Committee consideration.Supplementary submission from the Law Society, 19 June 2006, a proposito del Draft Legal Services Bill elaborato dal Department for Constitutional Affairs del 24.5.2006, vol.I, Report, Londra, 25.7.2006

[7] V. già la Comunicazione [COM (2001) 0130 def.] che espone la Relazione intermedia della Commissione al Consiglio europeo di Stoccolma-Migliorare e semplificare l’ambiente regolamentare.

[8] Commissione c. Granducato del Lussemburgo, causa  C-193/05

[9] Graham J.Wilson c. Ordre des avocats du barreau de Luxemburg, causa C-506/04

[10] Elias, La società degli individui, Bologna, 1990

[11] In questo senso Dezalay, I mercanti del diritto, Milano, 1997; e, criticamente, nella vastissima letteratura, v. da ultimo  Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Diritti civili ed economici in crisi, Milano, 2006; Ferrarese, Diritto sconfinato.Iniziativa giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari, 2006Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, 2006, p. 84 ss.

[12] V. i material raccolti nella Parte Quinta della Rass.forense, 2006, p. 667 ss.

[13] Come dimostra il dibattito avviato sulle riviste :ad es., Mercato, concorrenza, regole, Rivista di diritto privato  , Contratto e impresa,  e così via, negli anni  2005  e 2006.

[14] V. Labitalia.Il lavoro adesso, notizia pubbl. da ADNKronos, il 28.3.2006

[15] V. ad es. Altroconsumo, n.183 , giugno 2005; Comunicato stampa del 5.7.2006

[16] E’ la linea  da sempre seguita dal CNF:da ultimo v. Codici deontologici e autonomia privata, Milano, 2006

[17] Per l’ appunto nel  testo inglese si parla di contractual relations .

[18] Ministero dello Sviluppo Economico, Cittadino consumatore.Nuove norme sulla concorrenza e i diritti dei consumatori ( nel sito web).

[19] A cominciare dai rapporti della Banca mondiale degli investimenti: in materia v. i saggi  raccolti dall’ Association H.Capitant, Les droits de tradition civiliste en question.A’ propos des Rappoorts Doing Business de la Banque Mondiale, Parigi, 2006

[20] Intervento del Ministro Guardasigilli su Il Sole 24 Ore (Associazioni e Ordini garanti della formazione, 16.9.2006,p.23).

[21] V. Corte cost., sentenza n.405 del 2005

[22] Nei diversi progetti presentati nel corso della XIV legislatura ed ora all’inizio  della XV si incontrano diverse formulazioni, ma tutte  sono orientate a distinguere nettamente gli ambiti di materie distinti , riservati, tipici, qualificanti o, se si vuole “attratti” alla sfera di competenza delle professioni riservate. La competenza delle Associazioni professionali vale dunque “per esclusione”.

[23] V. le Relazioni predisposte dai Consiglieri del CNF e  previste nel programma congressuale  nel seguente ordine: avv. Agostino Equizzi, Federico Italia, Pierluigi Tirale, Alessandro Bonzo,Giorgio Orsoni , Giuseppe Bassu, Nicola Bianchi , Ubaldo Perfetti, Francesco Morgese,con l’intervento dell’avv. Pietro Ruggeri, coordinatore del Centro di formazione; e v. le Relazioni scritte degli avv. Consiglieri  C.Vermiglio, Aldo Loiodice, Alarico Mariani Marini, Carlo Martuccelli, Antonio De Michele (in collaborazione con  Massimo Melica) , Eugenio Cricrì, Lucio Del Paggio, Bruno Grimaldi.

[24] V. per tutti  Carbone (S.M.), Lo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale.Da Bruxelles I al regolamento CE n. 805/2004, V ed. in coll. Con Amalfitano e Tuo, Torino, 2006; Micklitz, The Politics of Judicial Cooperation in the EU, Cambridge, 2005

[25] Per una rassegna di queste problematiche rinvio ai lavori della Commissione del CNF coordinata dall’avv. C.Vermiglio in collaborazione con gli avv. Monticelli, Stillo e Traversa.

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