Il grande inganno
di Andrea Zavagli (Avvocato in Firenze)
Con il trattato di Lisbona del 1994 la Comunità Europea ha individuato nella “conoscenza” il volano della propria economia. Lo sviluppo della concorrenza e della qualità nella gestione del know how intellettuale, dunque, venne indicato come il primo traguardo da perseguire nella sfida economica agli altri continenti. La prima conseguenza della ricerca di tale qualità è stata l’individuazione della “formazione” quale mezzo di crescita intellettuale, ritenendo che il continuo approfondimento ed aggiornamento della conoscenza fosse in grado di fornire al “prodotto intellettuale” quello sviluppo necessario a vincere la “scommessa” di Lisbona. Se tale equazione può trovare una qualche condivisione per i settori scientifici ed industriali, molto meno può ritenersi corretta per i settori culturali – normativi. La natura stessa della “conoscenza” poggia sull’approfondimento e sull’aggiornamento sì che appare quanto meno “tautologico” sottolineare la necessità di tali basi per non solo una “crescita” intellettuale, ma pur anche per la sola conservazione della conoscenza che, per propria natura, vive del proprio continuo ampliamento. Come sempre in Italia, a differenza del resto dell’Europa, si è venuta a verificare una esasperazione dei concetti sì da rendere il così detto aggiornamento e la formazione cavalli di battaglia irrefrenabili. Gli Ordini hanno visto nella gestione della formazione dei propri iscritti la base di radicamento della propria funzione (funzione messa pesantemente in discussione dall’altro caposaldo definito dall’Europa, la libera concorrenza); le Università - che non appaiono in grado di sfornare, al termine del proprio ciclo di studi, professionisti preparati al mondo del lavoro – hanno visto nell’offerta didattica fornita agli Ordini la fonte di finanziamento sostitutiva della riduzione degli stanziamenti statali; le società commerciali, che nella formazione hanno visto l’apertura di un rilevantissimo mercato di utenti. Tutto ciò senza che, ovviamente, alcuna reale utilità ne derivasse per l’utente finale, il consumatore. L’enorme platea dei professionisti chiamati all’aggiornamento, infatti, non consente che la “formazione” possa risultare omogenea ed effettivamente utile, così come la semplice partecipazione ad alcune ore di un corso o di una conferenza – non potendo sostituire l’effettività di uno studio approfondito delle varie materie – non potrà mai produrre l’effettiva generalizzata miglior preparazione del professionista. Gli interessi in ballo, però, sono talmente importanti (sia a livello economico che di radicamento di “potere”) che nessuno svolge una analisi critica effettiva, rimanendo tutti corresponsabili del “grande inganno”. Le esperienze già svolte dalle professioni giuridico/economiche (commercialisti, ragionieri, notai) confermano non solo la velletarietà del progetto della “formazione obbligatoria” - in conseguenza, tra l’altro, della impossibilità di svolgere un effettivo vaglio della partecipazione alle iniziative dei soggetti e della oggettiva validità della qualità delle diverse proposte formative – ma ciò non ha impedito che il Consiglio Nazionale Forense, senza minimamente interrogare gli avvocati, si sia arrogato il diritto di imporre, con un proprio regolamento giuridicamente discutibile, la formazione permanente obbligatoria anche per gli avvocati, una categoria chiamata dalla stessa connotazione della propria attività professionale, al costante aggiornamento. Va rilevato, prima di tutto, che l’Italia è la nazione che presenta – all’interno della Comunità Europea – la maggior produzione normativa annuale, sì che appare davvero difficile poter immaginare un avvocato italiano che non si aggiorni sulle novità normative che, quasi quotidianamente, vengono sfornate nelle diverse forme di Leggi, Decreti Legislativi, Leggi Regionali, Regolamenti Ministeriali e quant’altro. Proprio tale continua produzione normativa sta, da anni, costringendo gli avvocati a disegnarsi settori che, se non possono essere definiti di specializzazione per mancanza di specifica disciplina, certamente definiscono con certezza la propria attività prevalente . In pratica sta scomparendo la figura dell’avvocato “a tutto campo” a favore di avvocati che svolgono la propria attività prevalente in settori specifici della materia giuridica (civile, penale, amministrativo etc.) e, all’interno di tali materie, in altrettanto chiaramente circoscritti argomenti (lavoro, famiglia, commerciale/fallimentare, previdenza etc.). È sotto gli occhi di tutti, dunque, l’inutilità di addossare l’obbligo di acquisizione di crediti formativi a circa 180.000 avvocati (salvo le esenzioni previste per i soliti noti) con un mercato della formazione che, impossibilitato a subire un qualsiasi effettivo controllo, non potrà mai far conseguire all’utente il proprio scopo principale: potersi rivolgere ad un qualificato professionista. Tale percorso, che appare davvero “scellerato” appare, oltretutto, contrario anche agli indirizzi che l’Antirust cerca di dare, in ossequio ai principi europei, alle libere professioni: libera concorrenza e selezione operata dal mercato. Anziché consentire, dunque, a chi vuole proporsi al mercato come effettivamente “esperto” della materia nella quale svolge la propria attività prevalente (avendo clientela esclusivamente in quel settore, investendo nell’aggiornamento cartaceo ed informatico in quello specifico settore, frequentando master e corsi specialistici nella materia prevalentemente trattata) di poterlo fare con propria autoresponsabilità (l’Autorità Garante per la Pubblicità Ingannevole risultando l’organo predisposto a valutare la legittimità di tale dichiarazione del professionista), gli Ordini nostrali hanno progettato una inutile macchina che viene a porre, da un lato, un ulteriore paletto costituito da una vera e propria nuova “condizione all’esercizio della professione” (viste le sanzioni previste per i non “osservanti” delle norma regolamentari) e, dall’altra, a vanificare il vaglio del mercato e l’effettività della auspicata concorrenza andando a “omogeneizzare” gli accreditamenti. Chiunque avrà seguito quel determinato “corso” sarà un bravo avvocato, indipendentemente da qualsiasi altra valutazione e dalla effettività della partecipazione a quel corso. Il solo certificato di “presenza” ad un corso, valutato ed accreditato dall’Ordine o dalle sue estensioni (le Fondazioni per la Formazione che ormai si stanno costituendo in Italia a tutti i livelli), avrà più valore dell’attività giurisdizionale comunque svolta o della personale formazione svolta nel proprio studio. Non v’é chi non veda in tale progetto formativo obbligatorio e permanente un nuovo “Grande Inganno” ancora una volta a scapito di quell’utente finale il consumatore che solo voleva capire meglio da quale professionista rivolgersi per risolvere il proprio specifico problema. In ossequio all’Europa, dunque, in Italia saremo presto “Todos caballeros”, anche senza saper effettivamente montare a cavallo.