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Ricambio generazionale nella classe dirigente del Paese: la solita storia?

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di Andrea Bonechi – Giunta Nazionale UNGDC

Da anni le statistiche mostrano il progressivo invecchiamento del Paese, tendenza per di più accentuata in Italia rispetto agli altri paesi industrializzati e l’argomento pensioni è giorno per giorno una discussione più accesa e non priva di moniti circa la tenuta dell’intero sistema. Uno scenario che induce alla prudenza, ma ahinoi anche alla amara consapevolezza nei giovani agli inizi della propria vita lavorativa che l’agognata pensione non potrà rivestire nelle loro aspettative il ruolo di buen retiro che fino ad oggi si è cercato invece di assicurare a tutti, con l’eccezione deprecabile dei livelli minimi. Ma le preoccupazioni sono ben presidiate, se è vero che la classe dirigente del Paese ha maturato un livello medio di età che si è incrementato negli ultimi dieci anni assai di più del tasso di invecchiamento anagrafico. I dati, ineffabili, sono mostrati dal recentissimo rapporto curato dalla Università Luiss «Generare classe dirigente – Un percorso da costruire», che ha individuato in circa 30.000 persone in posizione apicale di imprese, enti ed organismi rilevanti nel tessuto economico-sociale, la classe dirigente del Paese. Dalla tassonomica e dunque asettica analisi dei dati anagrafici, di estrazione e di formazione emerge una fotografia di indiscutibile e progressiva staticità del sistema, di vischiosità del ricambio, in buona sostanza di sostanziale e sostanzioso invecchiamento medio di coloro che sono chiamati ad assolvere funzioni direttive nella evoluzione economico-sociale. Non può esser certo frutto del caso: la pressoché radicale assenza di meccanismi regolamentari di ricambio nelle cariche, ad ogni livello, favorisce la sedimentazione di legami di per sé capaci di arginare il cambiamento. Ma ci sono eccezioni virtuose, quanto rare, e proprio il rinnovato ordinamento professionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili impone il rinnovo delle cariche negli ordini dopo il secondo mandato, esattamente come da lungo tempo avviene per l’unione giovani dottori commercialisti. Ma come, proprio nelle criticate professioni corporative? Neppure il mondo delle cooperative, espressione normativa nelle imprese della democrazia societaria, in occasione della riforma fecero rimuovere la norma che imponeva un ragionevole ricambio delle cariche apicali. La motivazione è sempre la stessa: perché privarsi delle migliori intelligenze? Anche la risposta è sempre la stessa: perché privarsi delle nuove migliori intelligenze? Un dibattito che sopravvive a sé stesso da sempre, nell’altalenarsi più o meno brusco del prevalere dell’una o dell’altra opinione, ma nel quale proprio la consapevolezza e la preparazione caratterizza la effettiva novità delle generazioni. L’esperienza è certo un valore, guai a disconoscerlo, ma non meno lo è il rinnovo di motivazioni ed intenzioni. Nel medesimo rapporto vi è poi una analisi di dati di opinione (a risposta chiusa) che illustra un generale pessimismo nel riscontro dell’attuale situazione e come la meritocrazia sia davvero una chimera, di cui si censura la carenza con il consueto italico risvolto per cui tutti ne lamentano l’assenza rigorosamente riferita agli altri…auspicandone l’avvento, sempre per coloro che debbono arrivare! Se il dato era non inatteso, non si comprende comunque lo stupore che si avverte nel verificarne la portata e la verità. È lo stupore figlio dell’ignoranza, o piuttosto quel che naturalmente si ha nel riscontrare una amara realtà con il rigore dei numeri? La classe professionale, tanto demagogicamente tacciata di scarsa apertura ai giovani e di classismo, rivela la radicale controtendenza in termini assoluti, soprattutto nelle professioni economico-giuridiche dunque più attinenti allo schema di classe dirigente indagato, e si pone d’obbligo l’interrogativo: cui prodest? Parafrasando un Gene Gnocchi d’annata, «a chi giova» denunciare il contrario dell’ovvio e quali effetti produce sulla credibilità generale di un dibattito così importante e di ampio respiro, additare l’ovvio? Se proprio la classe professionale, non del futuro, ma di oggi, è il frutto di un radicale abbassamento dell’età media degli iscritti, perché il mondo delle imprese, private e pubbliche, cioè proprio laddove i numeri mostrano risiedere la resistenza al cambiamento, la addita a freno dello sviluppo? Il cambiamento è esso stesso poi criticato nelle professioni per favorire figli e nipoti; ma può venire dalla pubblica amministrazione una simile critica? E per le imprese evolute nel privato non è forse apprezzata con enfasi la «tenuta della famiglia», con tanto di dibattito su come assicurare il ricambio generazionale? A Pistoia nel 2005, i giovani dottori commercialisti affrontarono nel loro annuale congresso nazionale proprio il tema del ricambio generazionale: al fiorir di argomenti tecnici, giuridici e finanche sociologi con riferimento alla continuità dei valori di impresa, fece da contraltare la desolante debolezza della continuità dei valori del sapere professionale, indice di un ricambio fisiologico che rispetta le scelte del mercato ogni volta che non guarda le carte d’identità.
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