Analisi di un paese bloccato
di Marco Vasarri - Direttivo Nazionale Aiga
Tra i molti spunti forniti dalla relazione del Governatore Draghi alla annuale assemblea di Bankitalia, i giovani professionisti debbono riflettere soprattutto sulla notazione demografica. Un paese che oggi conta 43 ultrasessantacinquenni su cento, arriverà ad averne 53 nel 2020 e 83 (!) nel 2040. Le civiltà postindustriali stanno vivendo, come appare oramai palese ai più, un cambiamento epocale nel rapporto tra le fasce sociali. La storia dell’umanità ha conosciuto, sino dalle sue origini, una stratificazione “piramidale” delle generazioni: la elevata mortalità infantile e la breve aspettativa di vita hanno determinato, da sempre, società composte da larghe fasce di giovani, un più ristretto numero di persone in età media, pochi anziani. La inversione di questi parametri (crisi delle nascite e aumento dell’età, situazioni peculiari del secondo dopoguerra), sta causando, almeno in Europa, una sorta di “rovesciamento” della piramide, con inevitabili riflessi di carattere socioeconomico. Se infatti, come giustamente evidenziato, sarà necessario intervenire oggi sugli strumenti previdenziali e sulla consistenza stessa del debito pubblico per evitare situazioni di potenziale gravissima crisi del sistema, è altrettanto inevitabile ripensare a chi, in questo contesto “ad orologeria”, debba essere investito della responsabilità di governare le necessarie riforme. Attualmente, secondo le stime pubblicate, i “giovani” (intendendo per tali, estensivamente, gli infraquarantacinquenni) sono ancora maggioranza nel paese, e quindi anche all’interno delle singole categorie. Essi però, non costituiscono che una minima parte delle fasce alte della dirigenza politica ed economica, avendo solo sporadicamente accesso a quella che comunemente viene definita “stanza dei bottoni” dove, ad ogni buon grado, la diversità anagrafica viene vista come un pericolo e non come una opportunità. È facile infatti notare che le governances degli organismi politici ed istituzionali da un lato, e dei grandi poteri economici dall’altro, sono affidate ad “anziani”. I Presidenti o gli AD dei grandi gruppi economici sono infatti quasi sempre persone con alle spalle almeno un quarantennio di attività; i docenti universitari hanno l’età media più alta in Europa; il Parlamento poi, grazie anche alle liste bloccate, ha una età media addirittura superiore a quella della scorsa legislatura, e sfiora i sessant’anni. Il nostro Paese, in sostanza, non riesce a rinnovarsi. Le energie più giovani, e come tali potenzialmente più innovative, vengono mortificate e compresse in una logica di autoperpetuazione della dirigenza praticata da tutte le componenti della società. Chi ha raggiunto il potere, per il fatto stesso di esservi arrivato, ritiene di poter continuare indefinitamente a gestire gli interessi collettivi, attribuendosi privilegi e rendite ingiustificabili delle quali, finalmente, anche l’opinione pubblica sembra accorgersi. Ma quali sono le cause di questa immobilità, di questo blocco nel ricambio che è la vera e propria “bomba” sulla quale tutti quanti siamo seduti? Partiamo da un dato storico. La generazione attualmente al potere aveva vent’anni alla fine dei Sessanta, al momento in cui fu dato quel “colpo di rasoio” tra passato e futuro che ha caratterizzato tutta la azione politica e sociale successiva. All’epoca i giovani, portatori di idee, compressi in schemi non più sostenibili da una società che non aveva saputo affrontare i cambiamenti, sfogarono la loro esigenza di rinnovamento con una rivolta partita dalle università e rapidamente estesa a tutti i livelli della società. La “fantasia al potere”, il sovvertimento delle regole, ma anche gli eccessi, gli errori, hanno proiettato coloro che furono protagonisti di quella stagione nella competizione politica, influenzandone in qualche modo i meccanismi. Il tentativo, in sé positivo, di eliminare quelle che furono definite le “barriere di classe”, ha portato ad un malinteso concetto di egualitarismo, che si è ben presto colorato di connotazione politica. In questo clima, una scuola divenuta incapace di valorizzare il merito, l’appiattimento della cultura verso il basso in nome di una formale accessibilità generalizzata sono state causa di uno svilimento e di una dequalificazione della offerta formativa. I “giovani” di allora, raggiunto il potere, non hanno saputo offrire alle nuove generazioni gli strumenti per qualificarsi e far emergere le loro reali competenze, in modo da poter raggiungere posizioni dirigenziali solo in virtù della propria capacità. In un quadro di mediocrità generale, lo strumento principe dell’avanzamento sociale, sia per la carriera politica, sia per quella economica, è divenuto il rapporto personale, ovvero la relazione, il cui meccanismo operativo prevede come metodo generale lo “scambio di favori” che supera qualsiasi valutazione di competenza in favore della dinamica interpersonale. Non importa essere bravi, basta essere parte del sistema. Ovviamente, se questa è la logica, è tanto più facile emergere, quanto più si è introdotti tra coloro che già ricoprono le posizioni chiave, riscuotendone la fiducia. Ma questa “introduzione”, questa rete di relazioni, ha bisogno di tempo per essere realizzata. E’ infatti con il progredire dell’età che è possibile crearsi un network di contatti più ampio, consolidando in tal modo un potere che, a sua volta, viene sfruttato a fini individualistici. Il “blocco” del nostro paese nasce da qui. Naturalmente, la “ingessatura” del sistema e la mancanza di ricambio porta a gravi distorsioni quali la professionalizzazione della politica, fenomeno para imprenditoriale che coinvolge un milione di persone. Un intero ceto che si autoalimenta e che fa della gestione della cosa pubblica il proprio mestiere, con i criteri che sopra abbiamo delineato, caratterizzandosi per una montante incapacità di assumere decisioni politiche forti che possano anche mettere in crisi il sistema delle relazioni interpersonali. In questo quadro i Giovani Professionisti, partendo dal Manifesto programmatico già siglato a Bergamo, lanciano l’idea del partito demografico, che vuole rappresentare la presa di coscienza, da parte dei giovani di tutte le categorie del sistema paese, del fatto che non potrà essere ancora questa logica a governare il nostro futuro. In un paese che invecchia, dovranno essere soprattutto le nuove generazioni a lanciare stimoli di rinnovamento, riprendendosi quel ruolo che è loro proprio. Proprio per ciò, attraverso un movimento culturale che nasce dalla base, i Giovani Professionisti intendono creare una corrente di pensiero “trasversale” che valorizzi il merito, per consentire a coloro che hanno i numeri, ai migliori intesi in senso etimologico di emergere indipendentemente dall’età. Inoltre, in correlazione ed in dipendenza proprio di questa nuova visione, non si potrà che riportare al centro della azione politica quella cultura del servizio, per la quale l’impegno nella gestione della cosa pubblica deve essere a vantaggio del Paese e non a vantaggio di se stessi. I migliori al governo, che dedicano tutte le loro energie, per un tempo limitato, esclusivamente alla gestione della cosa pubblica, e poi lasciano spazio ad altri. Questo è il Paese che immaginiamo, questo è il nostro sogno per il domani.