“… A proposito di avvocati e consigli giudiziari”
di Rolando Dalla Riva (Giunta Aiga)
Sul “fronte” della riforma dell’ordinamento giudiziario è ancora una volta tempo di scontro tra le varie componenti della giurisdizione, impegnate allo spasimo per spostare un po’ più in là la linea di demarcazione dei rispettivi ruoli. Come avvenne nel corso della Grande Guerra, per la “difesa” di qualche metro di terra si impegnano enormi risorse, con il rischio, però, di perdere di vista l’obiettivo di lungo termine. La linea del fronte, oggi, è quella dei consigli giudiziari, e soprattutto della partecipazione di diritto del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati, che sarebbe così chiamato a formulare il parere circa la valutazione di professionalità dei magistrati del distretto; partecipazione esclusa dall’ultimo emendamento governativo che ha ridotto la presenza di componenti laici nei consigli, già pesantemente ridimensionata rispetto alla previsione del decreto “Castelli”. L’argomento è spinoso; a sentire le prese di posizione dei soggetti interessati tale previsione sembra determinante per la funzionalità dell’intero impianto normativo, tanto da aver messo perfino a repentaglio la poltrona del Ministro della Giustizia. E’ comprensibile che l’avvocatura, già scarasamente tutelata dal governo, veda la propria partecipazione di diritto come una simbolica “linea Maginot”, al di sotto della quale verrebbe definitivamente travolto il ruolo della classe forense nella gestione del comparto giustizia. Sappiamo come è andata a finire dai lavori del senato sul Ddl Mastella: l’emendamento diretto a consentire la partecipazione del presidente dell’ordine è stato respinto confermandosi pertanto il testo governativo. La totale chiusura della magistratura associata - che i più hanno avvertito come ispiratrice della bocciatura dell’emendamento - è assai meno comprensibile. Contestava tale partecipazione considerandola un “vulnus” alla stessa autonomia ed indipendenza dell’organo valutatore, prospettando perfino possibili intrecci tra situazioni personali o contingenti e valutazioni di professionalità, chissà perché non considerate allorquando a far parte dei consigli giudiziari sia il pubblico ministero, ma mostrando così scarsissima considerazione per la classe forense, se non un implicito desiderio di totale autoreferenzialità. La prevedibile contrapposizione dogmatica però allontana dall’esigenza di fondo che dovrebbe essere comune a tutti i soggetti della giurisdizione: l’interesse generale all’instaurazione di un corretto ed efficiente sistema di valutazione dei magistrati, nominalmente precipuo obiettivo della riforma. Tale obiettivo è realizzabile in presenza di due condizioni: un organo di valutazione composto da professionalità affidabili e competenti, e procedure idonee a consentire una corretta valutazione attraverso l’acquisizione di tutte le informazioni disponibili. Sotto questo secondo profilo è indubbio che la classe forense – rappresentata dall’organo istituzionale – ha a disposizione elementi che dovrebbero essere adeguatamente valutati, anche per far presente aspetti positivi nel giudizio su di un magistrato. Invece, l’attuale configurazione della norma (anche quella uscita dall’ultima elaborazione del testo), in piena coerenza con un sistema valutativo che dovrebbe essere ben più articolato, restringe tale funzione alle segnalazioni specifiche di natura negativa, trasformando l’eventuale apporto del consiglio dell’ordine in un intervento di tipo “censorio”. Per di più non viene previsto un obbligo di esame (e di pronuncia) da parte del consiglio giudiziario su tali segnalazioni, col rischio di rendere ineffettiva la collaborazione dei consigli degli ordini. Ciò probabilmente influisce sull’atteggiamento della magistratura, la quale tuttavia non comprende quanto sia importante che la valutazione di professionalità sia condivisa anche dagli altri soggetti della giurisdizione, i quali hanno tutto il diritto di contribuire alla gestione del sistema, per garantirne equità e trasparenza, al di là dei molto teorici ed occasionali rischi di incompatibilità. Forse però quest’esigenza di partecipazione non simbolica di tutte le componenti della giurisdizione potrebbe essere efficacemente tutelata senza accanirsi in uno sterile braccio di ferro sulla composizione dei consigli giudiziari. Basterebbe consentire l’acquisizione nel procedimento di valutazione degli elementi motivati e documentati forniti dal consiglio dell’ordine degli avvocati, espressi anche in modo da sottoporre aspetti di particolare laboriosità o competenza dei magistrati in valutazione, e prevedere l’obbligo per il consiglio giudiziario di motivare l’eventuale dissenso su tali elementi. Ciò comporterebbe il raggiungimento di valutazioni realmente autorevoli e “concertate”, assicurando trasparenza all’ordinamento giudiziario e un ruolo concreto a tutti i soggetti della giurisdizione. A tal fine non appare sufficiente nemmeno l’ultima versione della norma approvata dal Senato; è vero che viene previsto il dovere di trasmissione delle segnalazioni del consiglio dell’ordine da parte dei responsabili degli uffici, ma l’ambito di tali segnalazioni è talmente ristretto da esporne la maggior parte al rischio di inammissibilità. Ignorare totalmente l’apporto della componente forense rende poco credibile l’impianto normativo nel dare quelle risposte di efficienza e trasparenza che dovrebbero essere nell’interesse della magistratura stessa, come da alcune componenti più volte dichiarato e nodo strutturale da sciogliere. Anche perché, per tornare alle metafore belliche, conquistare una fetta di territorio “nemico” approfittando della momentanea debolezza dell’avversario rischia solo di creare un confine labile destinato ad essere rimesso in discussione al mutare delle condizioni. E in questa materia l’unica cosa di cui non abbiamo bisogno è sicuramente una legislazione in continuo mutamento