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l'opinione

Previdenza complementare: quali esperienze in Europa

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di Marco Bernardini

Con la crisi del modello tradizionale di welfare state, i sistemi previdenziali hanno subito i maggiori contraccolpi e non solo a causa dei progressivi fenomeni demografici di allungamento della durata della vita. Sebbene il mantenimento di un elevato livello di protezione sociale è un obiettivo condiviso da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e ciò nonostante la spesa pensionistica pubblica rappresenti più della metà della spesa sociale complessiva - assorbendo tra il 9 e il 15% del loro prodotto interno lordo (PIL) – non si può sottovalutare il dato del numero sempre minore di lavoratori che oggi entra nel mercato del lavoro e che avrà il compito di sostenere un numero sempre crescente di pensionati. Con sistemi previdenziali come quelli attuali, le spese sociali pubbliche danno e tenderanno a dar luogo a tensioni finanziarie in tutti i Paesi dell’UE perché i Governi dovranno aumentare sensibilmente le spese sociali. Nonostante ogni Stato membro abbia autonoma competenza nel predisporre il suo assetto pensionistico in base alle caratteristiche e alle esigenze nazionali e nonostante finora l’intervento delle istituzioni comunitarie abbia solo offerto raccomandazioni di massima, gli Stati membri dovranno impegnarsi ad adattare i finanziamenti alla realtà demografica. Finora, le soluzioni adottate sono le più varie. Una linea comune è però ravvisabile nelle forme della previdenza complementare. Esistono, nella previdenza integrativa, profonde differenze di trattamento riservate ai pensionati della Comunità, sia riguardo le prestazioni erogate, sia in relazione ai contributi che possono essere versati solo dal datore di lavoro o da entrambi i contraenti, sia diversi livelli di protezione statale e giuridica. Nella maggioranza dei paesi i regimi di previdenza complementare, sommati alle prestazioni erogate dai regimi di base, tendono a garantire al lavoratore in pensione una garanzia del reddito pari al 65-75% dell’ultima retribuzione percepita: questo è quello che avviene in Gran Bretagna, Olanda, Germania, Francia, Lussemburgo e Grecia. In Italia e Spagna la situazione è alquanto diversa, vigendo in questi Paesi regimi garantisti che provvedono ad erogare al lavoratore in quiescenza una pensione di importo pari all’80% della retribuzione media degli ultimi 10 o 8 anni. Il regime pensionistico complementare, come viene definito dalla direttiva n.98/49CE del 29 giugno 1998, interessa il diritto comunitario oltre che per gli obiettivi di politica sociale, per le disposizioni finanziarie (libera circolazione dei capitali e dei servizi) e per la libera circolazione dei lavoratori, anche perché un mercato unico delle pensioni integrative non sarebbe vantaggioso solo per i pensionati e i fornitori di servizi pensionistici. Le restrizioni che fino ad oggi hanno imposto gli attori dei mercati finanziari sembrano non avere più ragione di esistere nell’area dell’euro e, soprattutto, i costi che esse impongono non sono più giustificabili se si vuole che i sistemi pensionistici integrativi si diffondano come reale alternativa ai sistemi di previdenza pubblica. In termini più generali potrebbero derivarne vantaggi: è sufficiente pensare ai profitti dei gestori di fondi pensione per investimenti su scala europea che aumenterebbero la quota in azioni, accrescendone rendimenti e contribuendo ad abbassare il costo indiretto del lavoro.
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