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Seconda conferenza nazionale dei giovani professionisti

I professionisti intellettuali, soprattutto in Italia, diversamente dal passato, hanno un’identità più diffusa, un ruolo meno privilegiato e connotazioni sociali ed economiche più varie, sicché, se da un lato non possono più essere identificati come casta chiusa e titolare di vantaggi esclusivi, dall’altro, in quanto compartecipi della gran parte delle problematiche nazionali, sono deputati ad essere contemporaneamente indicatori delle esigenze, analizzatori delle risorse e ideatori delle strategie risolutive. Meccanismi di partecipazione democratica e di ascolto delle proposte, che il ceto professional-intellettuale è in grado di formulare, sono strumenti di cui il potere politico, la attuale dirigenza politica italiana, non può fare a meno. In alcuni casi, tali fenomeni sono già in atto, ma quel che qui si propone richiede un duplice, imprescindibile, passaggio attuativo. Il soffocamento delle idee, la abiura delle reali istanze sociali, la disattenzione verso la pluralità delle voci sui problemi del Paese, non tardano a rivelarsi laddove si osservi la pressoché sostanziale omologazione dei punti di vista politici, pur ove a confronto siano chiamati esponenti di opposti schieramenti. La battaglia di questi ultimi si gioca sempre e comunque sul confronto delle cifre che, in molti casi, sembrano (statistiche alla mano) equivalersi o quasi. Questo è il vero declino di una classe dirigente che induce fenomeni o di strapotere di pochi o di sostanziale disinteresse di molti, allontanando così la “piazza” dal “palazzo” di guicciardiniana memoria. Ecco perché le classi professionali non possono disattendere al proprio ruolo di operatori, ma anche di portatori di idee, autonome, indipendenti, critiche, plurime, ma disponibili al confronto, al dialogo, alla partecipazione attiva, con i programmi del potere politico. Quest’ultimo, aperte le porte a coloro che fanno parte in maniera rappresentativa della classe professionale, non dovrà limitarsi a meri attestati di ascolto, ma raccogliere in modo programmato e finalizzato sul terreno delle riforme in atto, l’apporto dei ceti professionali. In tale ottica, è fondamentale che il ceto professionale riacquisisca l’irrinunciabile ed indispensabile facoltà critica, patrimonio del proprio dna, idonea a svincolare dalle logiche di stretto mercato l’autonomia e l’indipendenza del pensiero ed in grado di sprigionare forza innovativa per le scelte a compiersi in nome del Paese. Una sfida non da poco, che lascia da parte ruoli prefabbricati in nome di regole tutte da scrivere, ma che possono indurre movimenti di reale compenetrazione delle forme di governance non nel senso di sterili meccanismi autoreferenziali di produzione di potere, bensì di attuazione di quel progetto condiviso di ascolto della base, per giungere alla meta di vere, volute, autentiche riforme. Ricorda Bauman nel saggio “La decadenza degli intellettuali” che all’alba dello stato moderno gli intellettuali “… divennero un pubblico, crearono l’opinione pubblica, ottennero per questa loro creazione un’autorità …. Essi non avevano mai l’occasione di sottoporre le loro idee alla prova della realizzabilità; l’unica prova che contava era l’accordo degli altri partecipanti al dibattito, loro simili. Era stato in tal modo creato un nuovo criterio di verità, davvero rivoluzionario: il consenso”. La ricetta per una effettiva corrispondenza fra una governance effettivamente funzionante e un sistema di riforme che gli cammini al fianco (e non, come spesso accade, contro) può anche partire da un processo di autentica riappropriazione e riaffermazione dell’importanza della partecipazione e dell’ascolto del ceto professional-intellettuale nel sistema dirigenziale del paese. In nome di quel “consenso come criterio di verità”.
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